Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno

Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno
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martedì 3 marzo 2020

La Guerra in provincia di Ancoa. Luglio 1944. Testimonianze



I carri funebri erano stati rubati dai fascisti per fuggire”.


Il passaggio del fronte fu una tragedia sociale. Impossibile descrive la situazione di ognuno, situazioni che dovrebbero essere riportate al presente per capire la immensità della tragedia stessa. Una sintesi di quei drammi, leniti in parte dalla esternazione di valori vissuti e praticati in questa testimonianza, che è anche ricordo struggente, memoria ed affetto per la liberazione da questi incubi da parte di una adolescente, a Jesi:
“Era da poco giorno, quel 20 luglio 1944 ed io ero in piazza del Duomo con nelle mani le borse contenenti fiaschi per andare a prendere l’acqua alla fonte di San Marco, perché, con tutto il resto, i Tedeschi avevano già da giorni fatto saltare l’acquedotto. Avevo 16 anni e con me erano altre due coetanee quando, dal lato opposto a quello in cui mi trovavo, ho visto spuntare soldati con mitra spianati; impaurita come ero e con me le mie compagne, fuggii verso i vicoli, gridando a chi poteva sentire di nascondersi, perché c’erano ancora i Tedeschi. Poi, seminascosta, tornai verso la piazza per vedere che altro di male potevano ancora volerci fare i Tedeschi, naturalmente pronta a darmela a gambe levate per nascondermi. I soldati avanzavano ed ora potevo distinguere meglio. E vidi meglio. Eravate Voi, i liberatori e quanto eravate belli, così come vi ho visto! Senza rendermene conto, lasciai le borse che ancora avevo in mano e vi corsi incontro. Non so se foste voi ad abbracciarmi o se fossi io, forse insieme, non ricordo. So solo che piangevo e ridevo insieme perché finalmente eravate arrivati eppoi perché eravate Italiani come noi. Mi sentii buttare in aria; ma appena a terra corsi di nuovo verso i vicoli gridando la notizia che da tanti giorni aspettavamo. Lì, per lì, la piazza si gremì di gente; ma io corsi a casa ( abitavo proprio lì vicino) per dire alla mia mamma ed a mio fratello, che stava morendo per i maltrattamenti subiti in un rastrellamento tedesco, che finalmente eravamo stati da Voi liberati. Non dico con quanta commozione comune, credo possa immaginarlo. Mario, mio fratello, sembrava guarito dalla felicità, mentre la mamma lo rassicurava e lo accarezzava insieme. C’ero eccome, quel giorno e quanto Lei ha scritto[1] è proprio tanto vero che mi pare di essere tornata indietro nel tempo. Sette giorni dopo, poi, di mattina vennero a casa nostra quattro soldati: un Alpino, un Bersagliere, un Paracadutista ed un Fante, guidati da un tenente medico degli Alpini. Erano stati informati che qui c’era un ragazzo di 19 anni che stava morendo e per quale causa. Sapevano anche che, nei pochi momenti di lucidità che aveva, era tormentato dal pensiero che, nonostante si fosse
rifiutato di trasportare le cassette di mine con le quali i Tedeschi volevano e fecero saltare la galleria di Serra San Quirico (Ancona) vi era stato costretto a forza di bastonate e colpi con il calcio del mitra ed infine, per ulteriore rifiuto, gettato nel fiume sottostante la montagna e creduto morto, si potesse credere che lui fosse un vigliacco.
Egli, in effetti, aveva da tempo fatta la scelta che la coscienza di Italiano gli aveva suggerito e le precedenti persecuzioni dei repubblichini lo possono dimostrare; ma il suo chiodo fisso era e restava quello di essere stato umiliato e costretto a fare ciò che non avrebbe mai voluto fare e quello di non essere piuttosto ammazzato subito, nonostante la voglia di vivere che aveva. A quei cinque Angeli venuti per tranquillizzarlo, lo disse con il poco fiato che ancora aveva, piangendo e con lui tutti noi. Poi, loro dissero ciò che lui aspettava per acquetarsi: che se tutti gli Italiani avessero agito come lui, forse molti di quei ragazzi che dopo l’8 settembre 1943 si erano arruolati per venire a liberare noi, non sarebbero morti. E fecero una cosa meravigliosa: spiegarono una bandiera tricolore che avevano con loro, gliela distesero sul suo corpo nel letto e si intrattennero ancora un po’.
Non avevamo niente da offrire loro, solo un po’ di vino di quel fiasco regalatoci da un Alpino alcuni giorni prima ……si era procurato. Lo offrimmo con tutto il cuore e con tutta la riconoscenza. Il giorno dopo, il 28 luglio 1944, mio fratello morì così come aveva detto ai nostri parenti che si era premurato di cercare, quel generoso tenente medico che lo aveva visitato.
Poi l’altro, unico ma incommensurabile riconoscimento che mio fratello ebbe: al suo funerale ‘eravate anche voi e su quella bara, che sembrava più una cassa per il trasporto di frutta che tale, metteste nuovamente il Tricolore. Inoltre, nonostante che il percorso da casa al Cimitero fosse ancora minato, credo che partecipò con voi, tutta Jesi, tanto era lunga la processione di gente dietro a quel carrettino a mano che lo trasportava là (i carri funebri erano stati rubati da fascisti per fuggire).
Scrivo e piango.
Piango perché esprimo questo ricordo che è sempre fisso nella mia mente e soprattutto perché finalmente posso ora dire grazie a Lei e per Suo tramite a tutti quei meravigliosi ragazzi che passarono per Jesi.” [2]
Il legame tra la popolazione ed il Corpo di Italiano di Liberazione in quei giorni difficili non poteva essere meglio espresso dal ricordo di quella che allora era una adolescente e che visse la sua vita in questo spirito.


[1] L’articolo è una risposta in data 30 giugno 1984 ad un articolo di Sergio Pivetta pubblicato nel gennaio-febbraio 1984 su “L’Alpino”, mensile della Associazione Nazionale Alpini, in merito alla Liberazione di Jesi.
[2] Tralucci Fernanda, Era il 20 luglio 1944. In piazza Duomo siete arrivati Voi, i nostri salvatori. in L’Alpino, giugno 1984.