Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno

Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno
Le Marche e la Grande Guerra. Il volume è disponibile in tutte le librerie. Si può ordinare alla Casa Editrice, (ordini@nuovacultura.it). Node su www.storiainlaboratorio.blogspot.com

martedì 31 dicembre 2019

Marche 1944

STORIA MILITARE MARCHIGIANA







 L'azione del Corpo Italiano di Liberazione dopo la battaglia di Filottrano. Ricerca in itinere per ricostruire le operazioni dal 20 luglio 1944 al 31 agosto, da Jesi al metauro, ed allo sciogliemento del C.I.L. per la trasformazione in gRUPPI DI cOMBATTIMENTO

lunedì 16 dicembre 2019

I Caduti di Agugliano Provincia di Ancona



Ricerc in corso presso l'Archivio di Stato di Ancona
 per notizie sulle vicende dei Caduti nella Prima Guerra Mondiale
 sia in combattimento che per malattia.

domenica 1 dicembre 2019

Senigallia Associazione Storia Contemporanea


DICEMBRE 2019
LA FRASE del MESE
Forse non sono un buon attore,
 ma qualsiasi altra cosa avessi fatto,
sarei stato peggio.
Sean Connery

Gent.me Socie e Soci,
ecco la programmazione di dicembre che prevede pochi ma importanti appuntamenti. Invito tutti i soci di Senigallia e dintorni a partecipare ad almeno uno di questi appuntamenti: avranno la possibilità, se non l’avessero già fatto, di rinnovare la quota associativa (sempre di 12,00 euro). Al contempo li esorto a partecipare all’ultimo evento dell’anno, con a seguire la tradizionale cena associativa.
Auguri di serene festività.
Marco Severini
Presidente ASC

1)    Verona, mercoledì 12, ore 17.00, Biblioteca Frinzi (via S. Francesco, 20), i soci Stefano Aloe e Daniele Artoni presentano il volume associativo Viaggiare nel mondo in guerra 1939-1945 (Ed. Marsilio, 2019).
2)    Senigallia, lunedì 16, ore 17.30, Biblioteca “Antonelliana” (via O. Manni, 1), in occasione del 50° anniversario della strage di Piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli, presentazione dei libri Piazza Fontana. Il processo impossibile (Ed. Einaudi, 2019) di Benedetta Tobagi e Licia. Storia della prima italiana che denunciò un questore (Ed. PeA, 2019) di Marco Severini. Conversano con l’autrice Silvia Boero, Rita Forlini, Giuseppe Vaglieco, Lidia Pupilli e Marco Severini. L’evento, organizzato con l’ente formatore ”Proteo Fare Sapere-Marche”, è valido per la formazione docenti. NEWS
3)    Senigallia, lunedì 16, ore 21.00, Centro Sociale Arvultura (via N. Abbagnano), presentazione del libro Piazza Fontana. Il processo impossibile (Ed. Einaudi, 2019) di Benedetta Tobagi. NEWS
4)    Senigallia, mercoledì 18, ore 17.30, Biblioteca “Antonelliana” (via O. Manni, 1), presentazione del nuovo numero della rivista associativa «Centro e periferie» (n. 4, 2019). Presenta Marco Severini. Intervengono Lidia Pupilli, Maria Giulia Vichi, Giorgia Paparelli, Federica Mencarelli, Carolina Bartolucci nonché altri soci e socie. NEWS
5)    Ostra (An), sabato 21, Biblioteca civica (via del Teatro, 12), presentazione della terza edizione del Dizionario biografico delle donne marchigiane, a cura di Lidia Pupilli e Marco Severini (Ed. il lavoro editoriale, 2019). Saranno presenti i curatori e alcuni autori dell’opera. NEWS
6)    Senigallia, lunedì 23, Sala “Chiostergi” del Centro Cooperativo Mazziniano (via Chiostergi, 10), ore 18.00, presentazione dell’opera Storie di Natale 2019 (i proventi saranno devoluti in beneficenza). Seguirà cena associativa presso il Ristopub “Alter Ego”, via Chiostergi, 16 (bisogna prenotarsi entro e non oltre il 20 dicembre alla mail associativa, ascontemporanea@gmail.com, oppure al Ristopub, al numero 071 65716). NEWS

Ricordo che lunedì 23 dicembre si terrà, sempre al Centro Mazziniano, alle ore 17.00 l’ultima riunione del Consiglio Direttivo ASC e alle 17.30 l’ultima Assemblea dei Soci.
Per entrambi vale il seguente ordine del giorno:

1.    Insediamento nuove cariche associative
2.    Programmazione attività 2020
3.    Ratifica del regolamento elettorale
4.    Varie ed eventuali

lunedì 28 ottobre 2019

Rivista QUADERNI del Nastro Azzurro Sommario e Nota Redazionale

 SOMMARIO
 Anno LXXIX, Supplemento IX, 2018, n. 4, 10° della Rivista “Quaderni”  www.istitutodelnastroazzurro.it indirizzo:centrostudicesvam@istitutonastroaz zurro.org 

Editoriale del Presidente.  Carlo Maria Magnani: 


IL MONDO DA CUI VENIAMO: LA MEMORIA           

APPROFONDIMENTI 

AA.VV, La Battaglia di Vittorio Veneto. Ricostruzione ed Analisi.
Luigi Marsibilio, La Battaglia di Vittorio Veneto 
Osvaldo Biribicchi, Comando Supremo Regio Esercito. Le truppe italiane negli altri campi della Grande Guerra 
Massimo Coltrinari, Un elenco Glorioso. Le Armate Italiane a Vittorio Veneto nella versione del Comando Supremo.
 Alessia Biasiolo, L’Impero italiano in epoca fascista 

DIBATTITI 
Giovan Battista Birotti, Soldati e contadini. L’Esercito giapponese nel periodo Meiji (1868-1912)

ARCHIVIO 
Redazionale, Chiara Mastroantonio, Lo Statuto della Legione AzzurraPag.00 

MUSEI,ARCHIVI E BIBLIOTECHE 

Alessio Pecce, Giulio Moresi, aspirante ufficiale, bersagliere, caduto il 17 agosto  1917 sull’Hermada, sul Carso. Il Ricordo  

Posteditoriale: Antonio Daniele, Il Calendario azzurro per il 2019

IL MONDO IN CUI VIVIAMO: LA REALTA’ DI OGGI 

UNA FINESTRA SUL MONDO Sandra Milani, L’uso delle sostanze stupefacenti come strategia nella guerra e nel terrorismo islamico

GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE Luca Bordini, Riflessioni sulla comunicazione digitale delle Forze Armate 

Autori. Hanno collaborato a questo numero.
Articoli di Prossima Pubblicazione
Segnalazioni Librarie. 

CESVAM NOTIZIE Centro Studi sul Valore Militare 

I “Quaderni on Line”, Supplemento on Line, Anno 5°, V, 2018,  Maggio 2018, n. 30 
I “Quaderni on Line”, Supplemento on Line, Anno 5°, VI, 2018  Giugno 2018, n.31.
I “Quaderni on Line”, Supplemento on Line, Anno 5°, VII, 2018, Luglio 2018, n. 32

“Quaderni” on line sono su: www.valoremilitare.blogspot.com 

PER FINIRE Massimo Coltrinari,  Il Valore Militare attraverso le Cartoline Militari ed oltre 

Nota redazionale: Il seguito di riflessioni in questo fine anno non può portare che ad aggiustamenti sulla attività del CESVAM. Si dovrà porre maggiore attenzione alle attività esterne del CESVAM stesso e porre delle pregiudiziali di collaborazione che siano allineate al livello di ambizione del CESVAM. Il dibattito che necessariamente deve esistere all’interno deve passare attraverso una distinzione. L’Istituto del Nastro Azzurro ha due componenti che lo distinguono dalle altre Associazioni 
Combattentistiche.  La prima. È quella dell’associazionismo combattentistico” in cui è necessario porre alla base la componente militare, quella di chi ha mostrato il proprio valore militare e gli è stato riconosciuto, quella associativa e in parte reducistica. Tutti elementi che fanno capo, almeno per i militari, alla legge dei Principi del 1977 che deve animare ogni militare della Repubblica se si vuole definire tale. In pratica è una funzione verso l’interno dell’Istituto, nelle sue componenti ed articolazioni.  La seconda. Quella di Ente Morale, che deve ispirare l’azione dell’Istituto del Nastro Azzurro al pari dei suoi similari (Istituto della Previdenza Sociale, Istituto per la Storia del Risorgimento, Croce Rossa, ecc.) in cui la componente militare è sempre presente, in cui emerge quella di chi ha mostrato il proprio valore militare, ma non gli è stato riconosciuto ufficialmente con le previste decorazioni e modalità, in cui emergono in oltre misura la disponibilità, l’altruismo, il senso di appartenenza, le tradizione militari dei Corpi e delle Unità, il senso del servizio, e soprattutto la volontà di portare i principi statutari anche verso l’esterno, verso le componenti della società civile, le nuove e le vecchie generazioni, nelle forme più efficaci. In pratica è una funzione verso l’esterno dell’Istituto.  Fra le due componenti vi deve essere sinergia, armonia, collaborazione. Occorre in tutti i modi che non emergano contrasti, invidie, contrapposizioni, prese di posizioni imposte, intolleranza. Qualora queste emergessero sarebbe un gravissimo errore quello di affrontarle di petto, con ”fieri ed animati accenti”; più opportuno ed intelligente sarebbe la soluzione che adotti pazienza, silenzio, comprensione e soprattutto mettere spazio e tempo per spegnere ogni fuoco o fuocarello. A questo proposito viene in aiuto Italo Calvino, il quale scrive in “Le città invisibili” 

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se n’è uno, è quelle che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne: il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in merito all’inferno, non è l’inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” 


lunedì 21 ottobre 2019

QUADERNI NASTRO AZZURRO N. 4 del 2018

 





ANNO LXXX, SUPPLEMENTO IX, 2018, N. 4 , 
 In copertina: La Medaglia della Vittoria, coniata e firmata da Luciano Zanelli prodotta in tiratura limitata ha 67 mm di diametro e pesa 140 grammi. Disponibile in bronzo similoro. Disponibile presso la segreteria generale dell'Istituto
(segreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org)

domenica 13 ottobre 2019

La Liberazione di Jesi 20 luglio 1944 4



13.5. Il fronte è passato.
Con la occupazione di Jesi, Ancona è stata liberata. Immediatamente si colgono i frutti di questa vittoria, e nel prosieguo delle operazioni, Ancona assurge a ruolo logistico primario, come base primaria per l’alimentazione dell’attacco alla linea gotica. Con questo ruolo via via acquista energie per riprendere. Il porto, la raffineria e l’aeroporto di Falconara vengono subito ripristinati, quindi riprendono a funzionare e svolgere la loro funzione. Terminano i bombardamenti, ma questo non significa il ritorno degli sfollati, che continuano la loro stentata vita dove erano stati ospitati. Occorreranno mesi ed anni, fino al 1947 ed oltre, affinché la situazione si normalizzi.
Il fronte è passato ed inizia veramente una nuova, quel nuovo cammino che sarà irto di difficoltà di ogni sorta ma che è permeato nella grande fiducia nel valori della libertà della democrazia, della partecipazione del rinnovamento e del progresso non solo materiale ma anche morale. Iniziano gli anni del dopoguerra in cui vi erano certezze, in cui si sapeva distinguere una cosa dall’altra, in cui si aveva fiducia nella classe politica che stava andando al potere, e soprattutto, vi era, pur nella miseria ancora dominate, serenità di vivere.
A settanta anni da quegli avvenimenti, una riflessione a tutto tondo, senza scendere nelle sabbie mobili di visioni di parte, appare necessaria ed utile, per riprendere un cammino che negli ultimi venti anni si è fermato.

lunedì 7 ottobre 2019

La Liberazione di Jesi 20 luglio 1944 3


13.3.“Grazie, Alpino, per quel pane”.
La gratitudine della popolazione per la liberazione dai Tedeschi e per la fine dei pericoli si manifesta in modo spontaneo, ed aumenta quanto ci si accorge che a portare la libertà sono degli Italiani, e non degli stranieri come ci si aspettava, e per giunta appartenenti ad un Corpo estremamente popolare come quello degli Alpini. Francesco Gualdoni così scrive, attingendo dai suoi ricordi:
“Grazie Alpino per quel pane!. Eri sui vent’anni ed io ne avevo appena quindici. Ci incontrammo alle sei di mattina di quel 20 luglio 1944, in prossimità dello “sporticello” di via Mura Occidentali, in una Jesi completamente deserta. Il sibilo di qualche granata isolata e di uno Spitfire, su in alto, con attorno i segni della contraerea che tirava dalle colline a
nord della città. Mi accorsi di averti fatto sbigottire perché tu, Alpino, vedesti all’improvviso un viso macilento, due occhi guardinghi sotto i capelli incolti, una canottiera più piccola dei buchi che si ritrovava, quel ch’era rimasto dei pantaloni corti, uno spago per degnissima cinta, e le Timberland di allora, la pelle dei piedi. Risalivo le scalette a quattro zampe, sfinito dalla fame e dalle lunghe veglie. Ero uscito dalle cantine del civico 4 di via dell’Orfanatrofio, dove le donne, rosario in mano, attingevano piangendo la fine di tutto. Ma anche il tuo “look” non era migliore del mio, il cappello con mezza penna (forse una “raffica”?) calato sugli occhi, la divisa “Kaki” che avrebbe richiesto abbondanti lavaggi e rattoppi. Procedevi con circospezione, rasente al muro, il MAB[1] spianato e pronto a far fuoco. Mi chiedesti se la Wehrmacht se n’era andata ed io, annuendo, avevo ancora negli orecchi il gran botto del cavalcavia del viale della Vittoria, ridotto in briciole in quella notte più lunga del solito, poco dopo che i guastatori in ritirata erano passati a dar voce sulla porta del rifugio: "Alles kaputt, achtung, saltare ponte!”.
Mi passasti un pezzo di pane, di un bianco che non avevo mai visto e mi desti il bene assoluto della libertà, di cui spesso sperimentiamo la formula con pessimo uso. Non feci nemmeno in tempo a dirti grazie. Mi sdebito oggi, con 45 anni di ritardo. Scusami, Alpino del battaglione “Piemonte” ma sberle e sberleffi della vita mi hanno insegnato che l’eternità del tempo si può anche misurare a secondi” [2]

13.4.“I carri funebri erano stati rubati dai fascisti per fuggire”.
Il passaggio del fronte fu una tragedia sociale. Impossibile descrive la situazione di ognuno, situazioni che dovrebbero essere riportate al presente per capire la immensità della tragedia stessa. Una sintesi di quei drammi, leniti in parte dalla esternazione di valori vissuti e praticati in questa testimonianza, che è anche ricordo struggente, memoria ed affetto per la liberazione da questi incubi da parte di una adolescente, a Jesi:
“Era da poco giorno, quel 20 luglio 1944 ed io ero in piazza del Duomo con nelle mani le borse contenenti fiaschi per andare a prendere l’acqua alla fonte di San Marco, perché, con tutto il resto, i Tedeschi avevano già da giorni fatto saltare l’acquedotto. Avevo 16 anni e con me erano altre due coetanee quando, dal lato opposto a quello in cui mi trovavo, ho visto spuntare soldati con mitra spianati; impaurita come ero e con me le mie compagne, fuggii verso i vicoli, gridando a chi poteva sentire di nascondersi, perché c’erano ancora i Tedeschi. Poi, seminascosta, tornai verso la piazza per vedere che altro di male potevano ancora volerci fare i Tedeschi, naturalmente pronta a darmela a gambe levate per nascondermi. I soldati avanzavano ed ora potevo distinguere meglio. E vidi meglio. Eravate Voi, i liberatori e quanto eravate belli, così come vi ho visto! Senza rendermene conto, lasciai le borse che ancora avevo in mano e vi corsi incontro. Non so se foste voi ad abbracciarmi o se fossi io, forse insieme, non ricordo. So solo che piangevo e ridevo insieme perché finalmente eravate arrivati eppoi perché eravate Italiani come noi. Mi sentii buttare in aria; ma appena a terra corsi di nuovo verso i vicoli gridando la notizia che da tanti giorni aspettavamo. Lì, per lì, la piazza si gremì di gente; ma io corsi a casa ( abitavo proprio lì vicino) per dire alla mia mamma ed a mio fratello, che stava morendo per i maltrattamenti subiti in un rastrellamento tedesco, che finalmente eravamo stati da Voi liberati. Non dico con quanta commozione comune, credo possa immaginarlo. Mario, mio fratello, sembrava guarito dalla felicità, mentre la mamma lo rassicurava e lo accarezzava insieme. C’ero eccome, quel giorno e quanto Lei ha scritto[3] è proprio tanto vero che mi pare di essere tornata indietro nel tempo. Sette giorni dopo, poi, di mattina vennero a casa nostra quattro soldati: un Alpino, un Bersagliere, un Paracadutista ed un Fante, guidati da un tenente medico degli Alpini. Erano stati informati che qui c’era un ragazzo di 19 anni che stava morendo e per quale causa. Sapevano anche che, nei pochi momenti di lucidità che aveva, era tormentato dal pensiero che, nonostante si fosse
rifiutato di trasportare le cassette di mine con le quali i Tedeschi volevano e fecero saltare la galleria di Serra San Quirico (Ancona) vi era stato costretto a forza di bastonate e colpi con il calcio del mitra ed infine, per ulteriore rifiuto, gettato nel fiume sottostante la montagna e creduto morto, si potesse credere che lui fosse un vigliacco.
Egli, in effetti, aveva da tempo fatta la scelta che la coscienza di Italiano gli aveva suggerito e le precedenti persecuzioni dei repubblichini lo possono dimostrare; ma il suo chiodo fisso era e restava quello di essere stato umiliato e costretto a fare ciò che non avrebbe mai voluto fare e quello di non essere piuttosto ammazzato subito, nonostante la voglia di vivere che aveva. A quei cinque Angeli venuti per tranquillizzarlo, lo disse con il poco fiato che ancora aveva, piangendo e con lui tutti noi. Poi, loro dissero ciò che lui aspettava per acquetarsi: che se tutti gli Italiani avessero agito come lui, forse molti di quei ragazzi che dopo l’8 settembre 1943 si erano arruolati per venire a liberare noi, non sarebbero morti. E fecero una cosa meravigliosa: spiegarono una bandiera tricolore che avevano con loro, gliela distesero sul suo corpo nel letto e si intrattennero ancora un po’.
Non avevamo niente da offrire loro, solo un po’ di vino di quel fiasco regalatoci da un Alpino alcuni giorni prima ……si era procurato. Lo offrimmo con tutto il cuore e con tutta la riconoscenza. Il giorno dopo, il 28 luglio 1944, mio fratello morì così come aveva detto ai nostri parenti che si era premurato di cercare, quel generoso tenente medico che lo aveva visitato.
Poi l’altro, unico ma incommensurabile riconoscimento che mio fratello ebbe: al suo funerale ‘eravate anche voi e su quella bara, che sembrava più una cassa per il trasporto di frutta che tale, metteste nuovamente il Tricolore. Inoltre, nonostante che il percorso da casa al Cimitero fosse ancora minato, credo che partecipò con voi, tutta Jesi, tanto era lunga la processione di gente dietro a quel carrettino a mano che lo trasportava là (i carri funebri erano stati rubati da fascisti per fuggire).
Scrivo e piango.
Piango perché esprimo questo ricordo che è sempre fisso nella mia mente e soprattutto perché finalmente posso ora dire grazie a Lei e per Suo tramite a tutti quei meravigliosi ragazzi che passarono per Jesi.” [4]
Il legame tra la popolazione ed il Corpo di Italiano di Liberazione in quei giorni difficili non poteva essere meglio espresso dal ricordo di quella che allora era una adolescente e che visse la sua vita in questo spirito.



[1] Fucile automatico berretta, MAB, il fucile in dotazione alle truppe d’assalto ed alla fanteria del Corpo Italiano di Liberazione, lì dove era disponibili.
[2] Gualdoni Francesco, Grazie Alpino per quel pane!, in La Gazzetta di Ancona, 20 luglio 1989
[3] L’articolo è una risposta in data 30 giugno 1984 ad un articolo di Sergio Pivetta pubblicato nel gennaio-febbraio 1984 su “L’Alpino”, mensile della Associazione Nazionale Alpini, in merito alla Liberazione di Jesi.
[4] Tralucci Fernanda, Era il 20 luglio 1944. In piazza Duomo siete arrivati Voi, i nostri salvatori. in L’Alpino, giugno 1984.

venerdì 4 ottobre 2019

La Liberazione di Jesi 20 luglio 1944 2


13.2.Quel che rimane: un nome inciso sulla pietra.
Come in tutte le cose di guerra, c’è sempre un costo da pagare in termini di feriti e di Caduti, che le relazioni ufficiali non riportano in quanto sono di entità minima ed il tempo poi cancella inesorabilmente. Nomi di ragazzi in piena gioventù scritti su una pietra di un monumento dimenticato e trascurato da tutti. Fra i tanti, scegliamo quello di Gianfranco Giorgi di Vistarino.
Gianfranco Giorgi di Vistarino, classe 1915, tenente di Artiglieria, ingegnere, sorpreso dall’armistizio in Montenegro, riuscì a raggiungere l’Italia attraverso gravissimi pericoli. Entrato nel raggruppamento, veniva in seguito assegnato ad una delle Brigate del Corpo Italiano di Liberazione quale interprete e ufficiale di collegamento. Aveva chiesto il trasferimento (accordatogli) all’11° reggimento artiglieria, durante il trasferimento si trovava, il giorno 19 luglio, in un fabbricato, quando un reparto di salmerie fu colpito dal fuoco tedesco che provocò diversi feriti. Mio fratello, uscito con altri in loro soccorso, fu investito da qualche scheggia di un colpo in arrivo, che gli procurò qualche ferita apparentemente non grave. La sera stessa ne fu informato il cap. Cicogna, il quale il girono successivo mi accompagnò all’Ospedale da Campo dove mio fratello era stato ricoverato. Lo trovai apparentemente bene, ma un medico mi informò che c’era il pericolo di una commozione viscerale che poteva avere esito mortale. La mattina del giorno dopo mio fratello mi confermò di sentirsi bene, ma tornato la sera mi accorsi subito che la situazione si era aggravata e che ogni speranza poteva considerarsi svanita. Nelle prime ore del 22 luglio spirò.”[1]  
Per contrastare l’oblio e per tenere vivo il ricordo e la memoria, ora che la generazione protagonista di questi eventi sta passando, sono state messe in atto iniziative atte ad integrare la funzione di queste “pietre”. Spiegare a chi è interessato attraverso sistemi divulgativi semplici il significato di queste pietre, non solo affidato agli Storici ed agli uomini di cultura. E’ nato il progetto “Le pietre parlano”, che con la buona volontà di tutti si spera di portare a termine[2]
Sergio Pivetta, riassume nel diario, i risvolti umani ed i sacrifici i quei giorni:
Domenica 23 luglio 1944, Ho incontrato Lenzi, della “Nembo”. A Belvedere, il “San Marco”, che già a Santa Maria Nuova aveva avuto una decina di morti, ha preso le sorbe. Continuano a giungere autoambulanze cariche di feriti. Molti i Caduti del 68° fanteria, al Musone. Moretti è tra di loro. Enrico Jallonghi è all’ospedale, ferito ad un occhio piuttosto seriamente, sembra. Una pallottola esplosiva, a quanto pare. Mimmo Genovesi è grave. Una pallottola al basso ventre. Sono stati colpiti, tutti e due, nei combattimenti di mercoledì scorso, 19 luglio, nei pressi del fiume Esino. Comincia a tirare brutto vento….Ecco il racconto di Enrico: “In marcia di avvicinamento, il XXIX battaglione bersaglieri stava scendendo lungo le colline marchigiane degradanti verso il fiume Esino. Erano le prime ore del pomeriggio, la mia compagnia si era appena fermata per effettuare una breve sosta, avevamo messo lo zaino a terra. Improvvisamente l’attacco. Ricevetti l’ordine di buttarmi con la squadra che comandavo, entro un vicino caseggiato e di sistemarlo a difesa, mentre le altre squadre si sparpagliavano organizzandosi tutto intorno. Piazzate alle finestre del primo piano le armi automatiche, diedi l’ordine di aprire il fuoco per controbattere quelle del nemico. Non essendo riuscito subito ad individuare la provenienza, salii quasi subito al piano superiore e, aperti i vetri di una finestra, cercai di scoprire, scrutando tra le fessure, da dove stavano sparando. Fu un attimo. Sentii un gran colpo, la mia testa fu presa in pieno dalla scheggia di una pallottola che, colpita una persiana, era esplosa. Caddi a terra. Persi per qualche attimo conoscenza.. Mi ripresi quasi subito. Era tutto buio, non vedevo più nulla. Sollevato dai compagni subito accorsi, venni portato nella cantina dove si era rifugiata l’intera famiglia che viveva nell’abitazione. Subito dopo i nostri reparti, sotto l’incalzare di un furioso fuoco nemico, furono costretti a ripiegare di circa tre chilometri. Rimasi solo tutta la notte, amorevolmente vegliato da quella cara, indimenticabile gente. In quelle condizioni, con i Tedeschi tutto intorno.. Sarebbero potuti entrare da un momento all’altro. Le ore non passavano mai.. Ma non vennero. Il mattino seguente, pressate dall’offensiva italiana, le truppe germaniche si ritirarono, i nostri ritornarono a prendermi e mi portarono all’ospedale civile di Jesi, dove ricevetti le prime cure. A Jesi, morente, c’era anche Mimmo Genovesi, ferito mentre combatteva con il suo plotone, poco distante dal mio, nella stessa azione”
……..
Lunedì 24 luglio 1944. Enrico Jallonghi perderà probabilmente l’occhio; Mimmo Genovesi è morto.” [3]
    
    Poche parole in un diario per indicare sacrifici ormai consegnati all’oblio del tempo.


[1] Testimonianza riportata dal fratello Edoardo Giorgi di Vistarino in Giorgi di Vistarino E., Cicogna Mozzoni A., Un generale scomodo. Umberto Utili, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008, pag. 119 . Al ten. Gianfranco Giorgi di Vistarino fu conferita la medaglia di bronzo al valor militare con questa motivazione: “Ufficiale di artiglieria, sorpreso dall’Armistizio in Montenegro, riusciva a raggiungere il suolo patrio attraverso grandissimi pericoli. Entrato volontariamente a far parte del Corpo Italiano di Liberazione e destinato ad una grande unità, chiedeva insistentemente ed otteneva di essere assegnato ad un gruppo operativo in linea. Durante un violento tiro di artiglieria nemico, incurante del pericolo, usciva all’accantonamento per recare soccorso a militari feriti e veniva colpito da numerose schegge. Esempio di grande amore patrio, generoso ardimento ed altissimo senso del dovere”.
[2] Nei Documenti 4 e 5 sono riportati i dettagli di questo progetto, riferito al momento al Cippo di Casenuove e all’area dell’ex serra comunale, ad Osimo. Il primo per i Combattenti del Corpo Italiano di Liberazione, il secondo per i Caduti civili di Osimo.
[3] Pivetta S., Tutto per l’Italia. Diario di un alpino del battaglione “Piemonte”, cit, pag. 79

lunedì 30 settembre 2019

La Liberazione di Jesi 20 luglio 1944


Sergio Pivetta, nel suo diario, sotto la data del 20 luglio riporta poche ma significative annotazioni di quei momenti:
La notte passa tranquilla. E’ l’alba. Attacchiamo. Superata d’assalto la villa dove ieri sera si erano barricati, hanno dovuto abbandonarla precipitosamente. Tela di gran galoppo… Stamani siamo entrati in Jesi. La popolazione ci ha ricordato quella di Rapino: brava gente ..e che vino… Poi, i soli tristi spettacoli. Vendette, bastonate, i fazzoletti rossi si danno da fare. E’ disgustoso!”[1]
La conquista di Jesi la mattina del 20 luglio rappresenta il momento finale dell’azione del Corpo Italiano di Liberazione nell’azione per la conquista di Ancona. Occupare Jesi significò chiudere ogni azione tedesca che poteva essere portato sul fianco delle forze alleate attaccanti. Il Comando del 3° Reggimento alpini, col. Maggiorino Anfosso, così comunica al Comando della I Brigata la situazione:
“Fonogramma in partenza. Dal Comando 3° Alpini At Comando I Brigata. N. 100/Op. Alt. 20 luglio 1944 = ore 8,30 Alt At ore 7 “Piemonte” entrato in Jesi da margini occidentali alt gruppo someggiato zona casa Fronti (41-35) alt batteria controcarri sta assumendo schieramento margini ovest et nord ovest Jesi alt io procedo su Jesi alt oltre ai due prigionieri catturati nell’azione di ieri sono state catturate 3 mitragliatrici – i lanciabombe et materiale vario. Alt. Firmato Maggiorino”[2]
     
Fra le tante testimonianze del battaglione “Piemonte”, quella del s. ten. medico Augusto Giammiro, è interessante. Dopo aver ricordato che il piano di attacco del battaglione non prevedeva un attacco frontale alla città di Jesi ma ai fianchi per evitare distruzioni inutili, con la possibilità di chiudere in una sacca le unità e reparti Tedeschi che difendevano Jesi, rileva che i Tedeschi stessi, accortesi di questi piano, si ritirano con ordine ma non ebbero il tempo di attuare quelle distruzioni che erano soliti fare al momento di lasciare un abitato o una città, anche se il s. ten. Giammiro ricorda la periferia nord di Jesi disseminata di incendi e coperta di fumo.
Il plotone sanitario, al comando di Giammiro, composto da lui come tenente medico e da quattro alpini “portaferiti”.

“Al momento della partenza dei reparti, il Colonnello Comandante mi comunicò che dovevo rimanere fermo almeno per due ore dopo di che il piccolo plotone sanitario doveva indirizzarsi dritto verso una casa da lì distante circa due chilometri. Quello era il punto di soccorso medico. Successivamente, sulla base di eventuali scontri di fucileria, dovevo raggiungere la sottostante città recuperare l’ospedale civile ed issare sul balcone la bandiera tricolore quale segnale di occupazione avvenuta. Raggiunta la casa, sotto il pericolo dei cecchini, trovammo tutto in ordine, senza segni di abbandono fu così che chiamammo a voce alta dicendo di essere alpini in aiuto, nella speranza di far “uscire” eventuali cittadini nascosti ed allora sentii una voce che chiedeva: chi siete? Alla mia risposta siamo amici alpini Italiani, vedemmo aprirsi una botola dal pavimento è fuoriuscire impressionati grida di gioia e di evviva “siamo salvi, sono alpini”. Usciti dallo scantinato raccomandavo il massimo silenzio, cosa non facile data la presenza di molti bambini. Si trattava di oltre cento persone rifugiatesi nei sotterranei. Erano ancora terrorizzati e nel vedere noi alpini non credevano ancora ai loro occhi perché i Tedeschi erano andati via, affermando prossimo l’arrivo delle truppe marocchine. Ristabilita la calma e rifocillatici con anche del gradito buon verdicchio, il rumore di alcuni spari ci ricordava di raggiungere l’ospedale. Ivi giunti, non incontrammo problemi, , tranne la difficoltà di trovare il tricolore da esporre; gli alpini di guardia alle finestre. Dopo di che, finalmente l’arrivo della pattuglia del ten. Corvino grazie al quale la popolazione scese festosa per le strade dando alimenti e buon vino agli alpini che ne avevano veramente bisogno. Il giorno dopo, per normale avvicendamento la prima linea era presidiata dai paracadutisti della Nembo. Ci furono violenti combattimenti e ricordo, con molta tristezza, il corridoio dell’ospedale pieno di cadaveri di paracadutisti, oltre ai feriti in corsia.”[3]


[1] Pivetta S., Tutto per l’Italia. Diario di un alpino del battaglione “Piemonte”, cit, pag. 77
[2] Archivio Sergio Pivetta, Allegato 61, Copia.
[3] Giammiro Augusto, Il 20 luglio 1944 a Jesi rivissuto dall’Ufficiale Medico del Battaglione Alpini Piemonte in l’Alpino, novembre 1944.

martedì 24 settembre 2019

Jesi. I Suoi rivolti nella storia militare recente






Posta a ridosso immediato di Ancona, piazzaforte marittima del medio Adriatico, Jesi all’inizio del novecento per questa sua posizione vedeva nascere il suo ruolo militare che durò fino al 1947, ovvero all’indomani della fine della seconda guerra mondiale.
Questo ruolo si sviluppò in relazione al concomitante sviluppo del mezzo aereo, che, ai primi del novecento, era ai primi passi; ancora non ci si dibatteva se era più conveniente il “più leggero dell’aria”, ovvero quello che sarà chiamato Dirigibile o Aeronave, o il più pesante dell’aria”, ovvero l’aereo vero e proprio, con carlinga, ali motore e timone; entrambi fornivano al tempo vantaggi e svantaggi, in un equilibrio che fu risolto solo a metà degli anni trenta ( spedizione in Artide del Dirigibile “Italia” e naufragio dello Zeppelin in appontaggio nel 1939 a New York).
Jesi, in questo contesto, fu uno dei principali aeroporti per Dirigibili dell’inizio del novecento.
Il primo aeroporto nelle Marche fu quello di Senigallia, nel quale il pilota jesino Riccardo Ponselli si esercitava con altri piloti, il pergolese Giulio Brilli Cattarini e Muzio Gallo di Osimo. L’hangar di Senigallia era di modeste proporzioni e ospitava tre piccoli velivoli. A causa di un incendio venne distrutto, le fiamme incendiarono anche i tre velivoli. Nell’agosto del 1911, prima dello scoppio della guerra Italo Turca in un rapporto segreto inviato dallo Stato Maggiore della Regia Marina al Ministero della Guerra, si dichiarava che per sorvegliare l’Adriatico e garantire l’esplorazione sicura del mare sarebbe tornato utile l’impiego dei Dirigibili. Allo scopo vennero scelte tre zone strategiche nelle quali realizzare altrettanti aeroscali: a Venezia (Alto Adriatico) a Jesi (Centro Adriatico) e a Taranto o Brindisi (Basso Adriatico). Per la scelta dell’area destinata alla costruzione di un aeroscalo per dirigibili, venne inviato a Jesi il capitano De Cristoforo. La scelta dell’area cadde in parte della zona dell’attuale ZIPA. L’Aeroscalo jesino, costruito nel 1913, era un aeroscalo dell’Aviazione della Regia Marina in quanto al tempo le due forze Armate, Esercito e Marina,  avevano la propria aviazione; consisteva in un enorme capannone di ferro, il vero proprio hangar, ed in varie palazzine e strutture minori, ed era in sistema e  collegamento con il Comando Marittimo del Medio Adriatico di Ancona ed il Comando del VII Corpo d’Armata territoriale. L’aeroscalo nel 1914 e 1915 si sviluppò ospitando Dirigibili.

Impiegati con successo i Dirigibili in Libia, con le esperienze di questa guerra, si costruirono i dirigibili della classe “M” più grandi e più potenti di quelli della serie precedente, I nuovi dirigibili erano destinati a compiere ricognizioni in profondità e bombardamento a grande distanza. Si costruirono anche altri tipi chiamati “V” (Veloci) e “P” (Pesanti) ed i citati “M” (Medi). I Dirigibili Medi avevano queste caratteristiche: 12.000 metri cubi 2 motori velocita 60km, 10 ore di autonomia; 600 Kg. Di portata a 2800 metri di quota. Per quel tempo (1913) erano dati estremamente significativi.
I più famosi dirigibili di questa serie, con cui affrontammo l’inizio della Grande Guerra, furono il “Città di Jesi”, che aveva la sua sede all’aeroscalo di Ferrara, ed il “Città di Ferrara” che aveva la sua sede all’aeroscalo di Jesi. Il Dirigibile  “M”, a cui fu imposto  il nome “Citta di Jesi”, “in onore della città delle Marche che ospitava il secondo aeroscalo per dirigibili della Marina”, iniziò le prove di collaudo a Vigna di Valle, ma dovendosi completare ulteriori prove, fu trasportato per ferrovia a Ferrara, mentre il Dirigibile “M” “Citta di Ferrara”  al comando del tenente di vascello Castruccio Castracani si trasferiva all’aeroscalo di Jesi. Il 29 Maggio 1915, nella sala consiliare del Comune di Jesi si svolse una solenne cerimonia durante la quale venne consegnata alla Regia Marina la bandiera di combattimento dell’aeronave “Città di Jesi” nelle mani del Tenente di Vascello Castrucci Castracani degli Anterlminellli e del tenente di Vascello Carlo Barzagli. La cerimonia è ricordata in una pergamena tutt’oggi conservata presso la Biblioteca Comunale di Jesi, ove si possono leggere chiaramente le firme dei due ufficiali di Marina, del Sindaco, Avvocato Giuseppe Abbruzzetti, del Vescovo, mons. Giuseppe Gandolfi e della Presidentessa del Comitato promotore della iniziativa, Marchesa Erminia Saronni Honorati,
Sotto il profilo operativo, Jesi, con Ancona, vanta il triste primato di essere state le prime città italiane attaccate, nella Grande guerra, dal mare e dall’aria da parte del nemico austro-ungarico. Come noto la flotta austriaca la prima notte di guerra, ovvero all’alba del 24 maggio 1915 si presentò davanti alla coste romagnole e marchigiane e bombardò Porto Corsini, Rimini, Pesaro, Senigallia ed Ancona. Il bombardamento costò alla città dorica oltre 67 morti e diverse centinaia di feriti. Idrovolanti della Marina Austriaca, sorvolando la loro flotta, proseguirono oltre Ancona, che non  fu bombardata dall’aria, e proseguirono per Jesi, lasciando cadere sull’Hangar diverse bombe, ma non ci furono vittime, ma solo un incendio che presto fu domato.
Si può dire che Jesi fu la prima città italiana bombardata dall’aria nel Corso della Grande Guerra.
Gli idrovolanti austriaci erano alla ricerca del “Città di Ferrara” che aveva lasciato Jesi  poche ore prima della Mezzanotte del 23 maggio 1915 per la sua prima missione di guerra: bombardare Pola e le sue installazioni militari. Lo stesso per il “Città di Jesi” che lasciata Ferrara stava operando anche lui verso la costa Istriana. I due Dirigibili erano in pinea attività operativa ma ben presto ci si accorse che questo mezzo non era in grado di svolgere il ruolo di bombardamento che veniva loro richiesto per la loro vulnerabilità. Infatti il loro ciclo operativo non durò più di qualche mese. Il 7 giugno 1915 il “Città di Ferrara” lascia per l’ultima volta l’aeroscalo di Jesi per una missioni di bombardamento sulla città di Fiume, con l’obiettivo di bombardare gli stabilimenti della Whitehead ed i cantieri “Danubisi”, che riesce. Notevoli i danni arrecati, sembra che l’azione di bombardamento strategico sia riuscita. Sulla rotta di ritorno, all’altezza dell’Isola di Veglia, il dirigibile è fatto segno a intenso fuoco di fucileria e mitragliatrici. Colpito in più parti, è costretto ad ammarare. Con l’impatto con l’acqua l’involucro prende fuoco; periscono un ufficiale ed un meccanico; il comandante Castracane e l’equipaggio vengono, salvati e fatti prigionieri da un cacciatorpediniere austriaco.
Stessa sorte toccò al “Città di Jesi” al comando del ten. di vascello Bruno Brivonesi. Nella notte tra il 4 e 5 agosto 1915, con la missione di bombardare i cantieri navali di Pola il “Città di Jesi” nella rotta di avvicinamento, a 2800 metri viene inquadrato dalle fotoelettriche austriache e fatto segno ad intenso fuoco di fucileria e di contraerea. Viene colpito nella zona poppiera e vi è una fuga di gas, che costringe il dirigibile ad ammarare. L’equipaggio viene salvato da una motobarca austriaca e fatto prigioniero. Prima di cadere prigioniero il comandante Brivonesi riesce ad affondare la bandiera di combattimento donata dalla cittadinanza di Jesi.
Con la perdita del “Citta di Jesi” e del “Citta di Ferrara” termina la fase di bombardamento strategico in profondità ad opera dei dirigibili La Regia Marina ordina altri due Dirigibili, che verranno destinati alla esplorazione ed alla sorveglianza, ed avranno un ruolo fondamentale nel presidio dello sbarramento del Canale d’Otranto nel corso della guerra.
L’aeroporto di Jesi è base anche di squadriglie di aerei che si integrano con gli idrovolanti della Stazione marittima di Ancona e del campo di aviazione di Varano, sotto Osimo, per la difesa della piazzaforte.
Da ricordare sul finire del 1915 il tentativo di d’Annunzio di lanciare manifestini e messaggi tricolori su Zara. Dopo che il 5 agosto il Poeta, con pilota il tenente di vascello Miraglia, aveva sorvolato Trieste lanciando messaggi tricolori ed il 20 settembre, anniversario di Porta Pia, traendo con identica missione lo stesso bel risultato, il 26 Dicembre 1915 era tutto pianificato per fare la stessa missione su Zara. Il piano prevedeva la partenza degli aerei da Venezia, rotta sud fino ad Ancona, con scalo o a Varano o a Jesi, poi un balzo verso Zara con l’appoggio di navi lungo la rotta. Dopo aver sorvolato Zara, rientro per lo stesso tragitto. Purtroppo il 24 dicembre 1915, in un volo finale di prova, in un incidente mortale perse la vita Miraglia e tutta la missione fu annullata. Di questa impresa non realizzata dimane ampia traccia negli scritti di Gabriele d’Annunzio.
Rimaneva il significato strategico dell’aeroporto di Jesi: ogni iniziativa aerea nel medio Adriatico non poteva prescindere da questo aeroporto,
Nel 1917 anche l’Aviazione dell’Esercito porto sue squadriglie a Jesi, per incrementale l’attività offensiva, nel quadro della “battaglia in porto” e della “guerriglia marittima” volute da Thaon di Revel. Jesi era perfettamente inquadrato in quella Trincea Marittima che andava dal Timavo, per Venezia, Ancona, Brindisi e con lo sbarramento del Canale d’Otranto fino in Albania. La flotta austriaca era costretta, come avrebbe scritto D’Annunzio” a vivere ferma nei suoi porti “la gloriuzza di Lissa”. In questa lotta mista di colpi di mano e propaganda, Jesi subì da parte austriaca altri bombardamenti, di cui uno, del 27 settembre 1917 provocò notevoli danni. Secondo alcuni, il bombardamento del 5 settembre 1918, che arrecò anch’esso notevoli danni, fu uno degli ultimi bombardamenti aerei di quel conflitto.
Jesi, come città, al pari di quelle settentrionali come Padova, Venezia, Treviso, Vicenza e Verona, e della altre soggette ad incursione aerea, si doto di particolari difese antiaeree. In particolare la nostra difesa contraerea aveva portato sui tetti mitragliatrici e fucili, dando vita a quella curiosa specialità che prevedeva, su altane poste sui tetti, fucilieri e mitraglieri serrati l’un coltro l’altro; dato che il personale era della Regia Marina furono definiti “marinai di grondaia”, da una espressione coniata a Venezia dalla diceria popolare. Pensare che anche a Jesi vi fossero dei “marinai di grondaia” sottolinea il ruolo importante assunto dall’aeroporto, che si affermò nella Grande guerra e poi anche in seguito.