Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno

Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno
Le Marche e la Grande Guerra. Il volume è disponibile in tutte le librerie. Si può ordinare alla Casa Editrice, (ordini@nuovacultura.it). Node su www.storiainlaboratorio.blogspot.com

sabato 29 febbraio 2020

Il Valore Militare e gli Jesini

Edizione 1975


Se la città di Jesi ebbe un ruolo nelle vicende militari nella prima metà del novecento, gli Jesini in quanto assolsero il loro dovere di cittadini in Armi.
Nella Prima Guerra Mondiale, le brigate di riferimento sono la Brigata “Marche” e la Brigata “Ancona”, tutte nate in epoca postrisorgimentale ed umbertina con i reggimento, per la prima, 55° e 56° , e per la seconda, 69° e 70°. Il Distretto Militare di Ancona reclutava nella vallata dell’Esino, anche se le brigate, secondo la legge del 1873, avevano il nome geografico ed il distretto di alimentazione che corrispondeva al nome geografico, ma con accanto altri sei o sete distretti delle diverse regioni italiane, al fine di far comporre la brigata da tutti gli italiani, nella scelta post risorgimentale che “fatta l’Italia occorre fare gli italiani”
Nella Prima Guerra Mondiale  gli Jesini decorati di Medaglia d’Argento furono 28, di medaglia di bronzo 35 e 26 furono i decorati di croce di Guerra al Valore Militare. Nelle Marche si ebbero sette Medaglie d’Oro, tutte concesse a marchigiani di altre provincie. Da segnalare che uno Jesino Onesto Honorati ebbe, durante la guerra di Libia, la promozione per merito di guerra a tenente colonnello, ove si meritò anche una Croce di Guerra al Valore Militare. Durante la Grande Guerra, sul fronte italiano ebbe una Medaglia d’Argento al valor Militare e trasferito in Francia combattè nell’ambito del II Corpo d’Armata al comando del gen. Albricci e in unità miste franco-italiane, ove si guadagnò prima una Croce di Guerra francese e poi una successiva Croce di Guerra francese con Palma.
Tra le due guerre, particolarmente significativa la Medaglia d’Argento sul Campo avuta da Roberto Honorati, tenente medico. In una azione per la conquista di una quota, caduti tutti gli ufficiali, assumeva il comando e portava a compimento l’azione, ricevendo l’ammirazione di tutti.
Nella Guerra di Etiopia si distingue Marco Montali in cui si conquista due Croci di Guerra al valore Militare, una Medaglia di bronzo ed una d’Argento, e  nel 1941, alla vigilia della caduta dell’Impero, una Medaglia d’Argento al Valore Militare. Pietro Rosolini, che si era guadagnato due Medaglie di bronzo ed una Croce di guerra al Valor Militare durante la Grande Guerra, ebbe una terza Medaglia di Bronzo nel 1936,  ed infine una Croce di Guerra al valor Militare in Cirenaica nel dicembre 1941.
Nel ciclo di guerre che va dal 1935 al 1945, compresa quindi anche la Seconda Guerra Mondiale,  gli Jesini si conquistarono 34 Medaglie d’Argento, 36 di Bronzo e 50 Croci di guerra al Valor Militare, significando questo che i figli di coloro che combatterono la Grande Guerra furono degni dei loro Padri.
Per far fede alla sua tradizione aviatoria, Jesi vanta l’aviere Duilio Bianchelli, del personale navigante, mitragliere  che ha una Medaglia di Bronzo per azioni sul cielo del mediterraneo orientale, nel giugno luglio 1940, e una Croce di Guerra al valore Militare il 16 febbraio 1941 sul Cielo di Creta.
Eugenio Archetti che ha una medaglia d’Argento per difesa di Tobruck nel maggio 1941, e una, alla memoria, per la sua strenua resistenza su una posizione della frontiera egiziana nel dicembre 1941.
Esempi possono essere fatti per tutti i fronti di guerra ove il valore degli Jesini si rilevò ed è degno di nota.
Una nota particolare che emerge dalla Fonte da cui si sono tratte queste notizie ,(“Cittadini di Jesi Decorati al Valor Militare – Lions Club Internazionale, Club di Jesi, 1961, che è quindi una fonte non istituzionale); vi è inserito anche Marcello Honorati, decorato di Croce di Guerra al Valore Militare. La particolarità sta nel fatto che Marcello Honorati era un ufficiale volontario della X MAS - Battaglione Barbarigo, meritata come comandante di compagnia sul fronte di Nettuno, il 14 marzo 1944, ovvero sulla testa di ponte di Anzio durante le operazioni tedesche volte a ributtare a mare le forze alleate sbarcate. Per il fronte meridionale del Reich, come i tedeschi chiamavano in fronte italiano, per disposizione del Comando supremo tedesco in Italia non dovevano venire a contatto con truppe alleate, i reparti della R.S.I. Gli Italiani avevano compiti solo di controllo del territorio e repressione antiribellistica, come allora si chiamavano i partigiani.
 La X Flottiglia MAS, reparto italiano, riuscì a raggiungere il fronte di Nettuno perché non era una formazione della RSI, ma esisteva in base ad un accordo tra il principe Borghese, suo comandante, e il Comando Marittimo di La Spezia tedesco, stipulato nel settembre 1943. Manteneva la Bandiera Italiana il Regolamento di disciplina italiano e la divisa della Regia marina, era leale al vecchio alleato ma non voleva avere alcun rapporto con la RSI. Per questo era schierata sul fronte di Anzio. Era il segno dei tempi, non certo facili, seguiti alla crisi armistiziale dell’8 settembre. Tempi che si composero con la fine della guerra, la scelta Istituzionale del 2 giugno 1946, l’avvio dell’Italia di oggi.
Jesi, con la chiusura dell’aeroporto nel 1947 perse la sua caratteristica di città  “aeronautica” assunta agli inizi del novecento. Perse anche la connotazione di città militare, non avendo in città di stanza alcun reparto delle tre forze armate.
Jesi ha dimostrato di avere un alta passione per le virtù civiche, ed il suo monumento ai Caduti ricorda questo suo passato militare che il 75 anni di pace, non è stato scalfito ne attenuato, anche se si manifesta in forme e espressioni diverse, al segno ed al passo dei tempi.


domenica 23 febbraio 2020

Jsi. 20 luglio 1944 Testimonianze



.“Grazie, Alpino, per quel pane”.


La gratitudine della popolazione per la liberazione dai Tedeschi e per la fine dei pericoli si manifesta in modo spontaneo, ed aumenta quanto ci si accorge che a portare la libertà sono degli Italiani, e non degli stranieri come ci si aspettava, e per giunta appartenenti ad un Corpo estremamente popolare come quello degli Alpini. Francesco Gualdoni così scrive, attingendo dai suoi ricordi:

“Grazie Alpino per quel pane!. Eri sui vent’anni ed io ne avevo appena quindici. Ci incontrammo alle sei di mattina di quel 20 luglio 1944, in prossimità dello “sporticello” di via Mura Occidentali, in una Jesi completamente deserta. Il sibilo di qualche granata isolata e di uno Spitfire, su in alto, con attorno i segni della contraerea che tirava dalle colline a
nord della città. Mi accorsi di averti fatto sbigottire perché tu, Alpino, vedesti all’improvviso un viso macilento, due occhi guardinghi sotto i capelli incolti, una canottiera più piccola dei buchi che si ritrovava, quel ch’era rimasto dei pantaloni corti, uno spago per degnissima cinta, e le Timberland di allora, la pelle dei piedi. Risalivo le scalette a quattro zampe, sfinito dalla fame e dalle lunghe veglie. Ero uscito dalle cantine del civico 4 di via dell’Orfanatrofio, dove le donne, rosario in mano, attingevano piangendo la fine di tutto. Ma anche il tuo “look” non era migliore del mio, il cappello con mezza penna (forse una “raffica”?) calato sugli occhi, la divisa “Kaki” che avrebbe richiesto abbondanti lavaggi e rattoppi. Procedevi con circospezione, rasente al muro, il MAB[1] spianato e pronto a far fuoco. Mi chiedesti se la Wehrmacht se n’era andata ed io, annuendo, avevo ancora negli orecchi il gran botto del cavalcavia del viale della Vittoria, ridotto in briciole in quella notte più lunga del solito, poco dopo che i guastatori in ritirata erano passati a dar voce sulla porta del rifugio: "Alles kaputt, achtung, saltare ponte!”.
Mi passasti un pezzo di pane, di un bianco che non avevo mai visto e mi desti il bene assoluto della libertà, di cui spesso sperimentiamo la formula con pessimo uso. Non feci nemmeno in tempo a dirti grazie. Mi sdebito oggi, con 45 anni di ritardo. Scusami, Alpino del battaglione “Piemonte” ma sberle e sberleffi della vita mi hanno insegnato che l’eternità del tempo si può anche misurare a secondi” [2]



[1] Fucile automatico berretta, MAB, il fucile in dotazione alle truppe d’assalto ed alla fanteria del Corpo Italiano di Liberazione, lì dove era disponibili.
[2] Gualdoni Francesco, Grazie Alpino per quel pane!, in La Gazzetta di Ancona, 20 luglio 1989

martedì 18 febbraio 2020

Luglio 1944. Il passaggio del Fronte in provincia di Ancona



Quel che rimane: un nome inciso sulla pietra.



Come in tutte le cose di guerra, c’è sempre un costo da pagare in termini di feriti e di Caduti, che le relazioni ufficiali non riportano in quanto sono di entità minima ed il tempo poi cancella inesorabilmente. Nomi di ragazzi in piena gioventù scritti su una pietra di un monumento dimenticato e trascurato da tutti. Fra i tanti, scegliamo quello di Gianfranco Giorgi di Vistarino.
Gianfranco Giorgi di Vistarino, classe 1915, tenente di Artiglieria, ingegnere, sorpreso dall’armistizio in Montenegro, riuscì a raggiungere l’Italia attraverso gravissimi pericoli. Entrato nel raggruppamento, veniva in seguito assegnato ad una delle Brigate del Corpo Italiano di Liberazione quale interprete e ufficiale di collegamento. Aveva chiesto il trasferimento (accordatogli) all’11° reggimento artiglieria, durante il trasferimento si trovava, il giorno 19 luglio, in un fabbricato, quando un reparto di salmerie fu colpito dal fuoco tedesco che provocò diversi feriti. Mio fratello, uscito con altri in loro soccorso, fu investito da qualche scheggia di un colpo in arrivo, che gli procurò qualche ferita apparentemente non grave. La sera stessa ne fu informato il cap. Cicogna, il quale il girono successivo mi accompagnò all’Ospedale da Campo dove mio fratello era stato ricoverato. Lo trovai apparentemente bene, ma un medico mi informò che c’era il pericolo di una commozione viscerale che poteva avere esito mortale. La mattina del giorno dopo mio fratello mi confermò di sentirsi bene, ma tornato la sera mi accorsi subito che la situazione si era aggravata e che ogni speranza poteva considerarsi svanita. Nelle prime ore del 22 luglio spirò.”[1]  
Per contrastare l’oblio e per tenere vivo il ricordo e la memoria, ora che la generazione protagonista di questi eventi sta passando, sono state messe in atto iniziative atte ad integrare la funzione di queste “pietre”. Spiegare a chi è interessato attraverso sistemi divulgativi semplici il significato di queste pietre, non solo affidato agli Storici ed agli uomini di cultura. E’ nato il progetto “Le pietre parlano”, che con la buona volontà di tutti si spera di portare a termine[2]
Sergio Pivetta, riassume nel diario, i risvolti umani ed i sacrifici i quei giorni:
Domenica 23 luglio 1944, Ho incontrato Lenzi, della “Nembo”. A Belvedere, il “San Marco”, che già a Santa Maria Nuova aveva avuto una decina di morti, ha preso le sorbe. Continuano a giungere autoambulanze cariche di feriti. Molti i Caduti del 68° fanteria, al Musone. Moretti è tra di loro. Enrico Jallonghi è all’ospedale, ferito ad un occhio piuttosto seriamente, sembra. Una pallottola esplosiva, a quanto pare. Mimmo Genovesi è grave. Una pallottola al basso ventre. Sono stati colpiti, tutti e due, nei combattimenti di mercoledì scorso, 19 luglio, nei pressi del fiume Esino. Comincia a tirare brutto vento….Ecco il racconto di Enrico: “In marcia di avvicinamento, il XXIX battaglione bersaglieri stava scendendo lungo le colline marchigiane degradanti verso il fiume Esino. Erano le prime ore del pomeriggio, la mia compagnia si era appena fermata per effettuare una breve sosta, avevamo messo lo zaino a terra. Improvvisamente l’attacco. Ricevetti l’ordine di buttarmi con la squadra che comandavo, entro un vicino caseggiato e di sistemarlo a difesa, mentre le altre squadre si sparpagliavano organizzandosi tutto intorno. Piazzate alle finestre del primo piano le armi automatiche, diedi l’ordine di aprire il fuoco per controbattere quelle del nemico. Non essendo riuscito subito ad individuare la provenienza, salii quasi subito al piano superiore e, aperti i vetri di una finestra, cercai di scoprire, scrutando tra le fessure, da dove stavano sparando. Fu un attimo. Sentii un gran colpo, la mia testa fu presa in pieno dalla scheggia di una pallottola che, colpita una persiana, era esplosa. Caddi a terra. Persi per qualche attimo conoscenza.. Mi ripresi quasi subito. Era tutto buio, non vedevo più nulla. Sollevato dai compagni subito accorsi, venni portato nella cantina dove si era rifugiata l’intera famiglia che viveva nell’abitazione. Subito dopo i nostri reparti, sotto l’incalzare di un furioso fuoco nemico, furono costretti a ripiegare di circa tre chilometri. Rimasi solo tutta la notte, amorevolmente vegliato da quella cara, indimenticabile gente. In quelle condizioni, con i Tedeschi tutto intorno.. Sarebbero potuti entrare da un momento all’altro. Le ore non passavano mai.. Ma non vennero. Il mattino seguente, pressate dall’offensiva italiana, le truppe germaniche si ritirarono, i nostri ritornarono a prendermi e mi portarono all’ospedale civile di Jesi, dove ricevetti le prime cure. A Jesi, morente, c’era anche Mimmo Genovesi, ferito mentre combatteva con il suo plotone, poco distante dal mio, nella stessa azione”
……..
Lunedì 24 luglio 1944. Enrico Jallonghi perderà probabilmente l’occhio; Mimmo Genovesi è morto.” [3]
    
    Poche parole in un diario per indicare sacrifici ormai consegnati all’oblio del tempo.


[1] Testimonianza riportata dal fratello Edoardo Giorgi di Vistarino in Giorgi di Vistarino E., Cicogna Mozzoni A., Un generale scomodo. Umberto Utili, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008, pag. 119 . Al ten. Gianfranco Giorgi di Vistarino fu conferita la medaglia di bronzo al valor militare con questa motivazione: “Ufficiale di artiglieria, sorpreso dall’Armistizio in Montenegro, riusciva a raggiungere il suolo patrio attraverso grandissimi pericoli. Entrato volontariamente a far parte del Corpo Italiano di Liberazione e destinato ad una grande unità, chiedeva insistentemente ed otteneva di essere assegnato ad un gruppo operativo in linea. Durante un violento tiro di artiglieria nemico, incurante del pericolo, usciva all’accantonamento per recare soccorso a militari feriti e veniva colpito da numerose schegge. Esempio di grande amore patrio, generoso ardimento ed altissimo senso del dovere”.
[2] Nei Documenti 4 e 5 sono riportati i dettagli di questo progetto, riferito al momento al Cippo di Casenuove e all’area dell’ex serra comunale, ad Osimo. Il primo per i Combattenti del Corpo Italiano di Liberazione, il secondo per i Caduti civili di Osimo.
[3] Pivetta S., Tutto per l’Italia. Diario di un alpino del battaglione “Piemonte”, cit, pag. 79

lunedì 10 febbraio 2020

20 luglio 1044. Occupazione di Jesi


STORIA MILITARE DELLE MARCHE
1944
 II Corpo Polacco e Corpo Italiano di LIberazione



Sergio Pivetta, nel suo diario, sotto la data del 20 luglio riporta poche ma significative annotazioni di quei momenti:
La notte passa tranquilla. E’ l’alba. Attacchiamo. Superata d’assalto la villa dove ieri sera si erano barricati, hanno dovuto abbandonarla precipitosamente. Tela di gran galoppo… Stamani siamo entrati in Jesi. La popolazione ci ha ricordato quella di Rapino: brava gente ..e che vino… Poi, i soli tristi spettacoli. Vendette, bastonate, i fazzoletti rossi si danno da fare. E’ disgustoso!”[1]
La conquista di Jesi la mattina del 20 luglio rappresenta il momento finale dell’azione del Corpo Italiano di Liberazione nell’azione per la conquista di Ancona. Occupare Jesi significò chiudere ogni azione tedesca che poteva essere portato sul fianco delle forze alleate attaccanti. Il Comando del 3° Reggimento alpini, col. Maggiorino Anfosso, così comunica al Comando della I Brigata la situazione:
“Fonogramma in partenza. Dal Comando 3° Alpini At Comando I Brigata. N. 100/Op. Alt. 20 luglio 1944 = ore 8,30 Alt At ore 7 “Piemonte” entrato in Jesi da margini occidentali alt gruppo someggiato zona casa Fronti (41-35) alt batteria controcarri sta assumendo schieramento margini ovest et nord ovest Jesi alt io procedo su Jesi alt oltre ai due prigionieri catturati nell’azione di ieri sono state catturate 3 mitragliatrici – i lanciabombe et materiale vario. Alt. Firmato Maggiorino”[2]
     
Fra le tante testimonianze del battaglione “Piemonte”, quella del s. ten. medico Augusto Giammiro, è interessante. Dopo aver ricordato che il piano di attacco del battaglione non prevedeva un attacco frontale alla città di Jesi ma ai fianchi per evitare distruzioni inutili, con la possibilità di chiudere in una sacca le unità e reparti Tedeschi che difendevano Jesi, rileva che i Tedeschi stessi, accortesi di questi piano, si ritirano con ordine ma non ebbero il tempo di attuare quelle distruzioni che erano soliti fare al momento di lasciare un abitato o una città, anche se il s. ten. Giammiro ricorda la periferia nord di Jesi disseminata di incendi e coperta di fumo.
Il plotone sanitario, al comando di Giammiro, composto da lui come tenente medico e da quattro alpini “portaferiti”.

“Al momento della partenza dei reparti, il Colonnello Comandante mi comunicò che dovevo rimanere fermo almeno per due ore dopo di che il piccolo plotone sanitario doveva indirizzarsi dritto verso una casa da lì distante circa due chilometri. Quello era il punto di soccorso medico. Successivamente, sulla base di eventuali scontri di fucileria, dovevo raggiungere la sottostante città recuperare l’ospedale civile ed issare sul balcone la bandiera tricolore quale segnale di occupazione avvenuta. Raggiunta la casa, sotto il pericolo dei cecchini, trovammo tutto in ordine, senza segni di abbandono fu così che chiamammo a voce alta dicendo di essere alpini in aiuto, nella speranza di far “uscire” eventuali cittadini nascosti ed allora sentii una voce che chiedeva: chi siete? Alla mia risposta siamo amici alpini Italiani, vedemmo aprirsi una botola dal pavimento è fuoriuscire impressionati grida di gioia e di evviva “siamo salvi, sono alpini”. Usciti dallo scantinato raccomandavo il massimo silenzio, cosa non facile data la presenza di molti bambini. Si trattava di oltre cento persone rifugiatesi nei sotterranei. Erano ancora terrorizzati e nel vedere noi alpini non credevano ancora ai loro occhi perché i Tedeschi erano andati via, affermando prossimo l’arrivo delle truppe marocchine. Ristabilita la calma e rifocillatici con anche del gradito buon verdicchio, il rumore di alcuni spari ci ricordava di raggiungere l’ospedale. Ivi giunti, non incontrammo problemi, , tranne la difficoltà di trovare il tricolore da esporre; gli alpini di guardia alle finestre. Dopo di che, finalmente l’arrivo della pattuglia del ten. Corvino grazie al quale la popolazione scese festosa per le strade dando alimenti e buon vino agli alpini che ne avevano veramente bisogno. Il giorno dopo, per normale avvicendamento la prima linea era presidiata dai paracadutisti della Nembo. Ci furono violenti combattimenti e ricordo, con molta tristezza, il corridoio dell’ospedale pieno di cadaveri di paracadutisti, oltre ai feriti in corsia.”[3]


[1] Pivetta S., Tutto per l’Italia. Diario di un alpino del battaglione “Piemonte”, cit, pag. 77
[2] Archivio Sergio Pivetta, Allegato 61, Copia.
[3] Giammiro Augusto, Il 20 luglio 1944 a Jesi rivissuto dall’Ufficiale Medico del Battaglione Alpini Piemonte in l’Alpino, novembre 1944.

mercoledì 5 febbraio 2020

Bandiera deSotto questa bandiera morì Lamberto Durantilla Legione Garibaldina in Francia 1914

1914
Sotto questa bandiera morì Lamberto Duranti anconetano, repubblicano, giornalista. I suoi funerali si svolsero ad Ancona il 20 gennaio 1915