Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno

Le Brigate di fanteria "marchigiane": Marche, Ancona, Macerata, Pesaro, Piceno
Le Marche e la Grande Guerra. Il volume è disponibile in tutte le librerie. Si può ordinare alla Casa Editrice, (ordini@nuovacultura.it). Node su www.storiainlaboratorio.blogspot.com

lunedì 30 settembre 2019

La Liberazione di Jesi 20 luglio 1944


Sergio Pivetta, nel suo diario, sotto la data del 20 luglio riporta poche ma significative annotazioni di quei momenti:
La notte passa tranquilla. E’ l’alba. Attacchiamo. Superata d’assalto la villa dove ieri sera si erano barricati, hanno dovuto abbandonarla precipitosamente. Tela di gran galoppo… Stamani siamo entrati in Jesi. La popolazione ci ha ricordato quella di Rapino: brava gente ..e che vino… Poi, i soli tristi spettacoli. Vendette, bastonate, i fazzoletti rossi si danno da fare. E’ disgustoso!”[1]
La conquista di Jesi la mattina del 20 luglio rappresenta il momento finale dell’azione del Corpo Italiano di Liberazione nell’azione per la conquista di Ancona. Occupare Jesi significò chiudere ogni azione tedesca che poteva essere portato sul fianco delle forze alleate attaccanti. Il Comando del 3° Reggimento alpini, col. Maggiorino Anfosso, così comunica al Comando della I Brigata la situazione:
“Fonogramma in partenza. Dal Comando 3° Alpini At Comando I Brigata. N. 100/Op. Alt. 20 luglio 1944 = ore 8,30 Alt At ore 7 “Piemonte” entrato in Jesi da margini occidentali alt gruppo someggiato zona casa Fronti (41-35) alt batteria controcarri sta assumendo schieramento margini ovest et nord ovest Jesi alt io procedo su Jesi alt oltre ai due prigionieri catturati nell’azione di ieri sono state catturate 3 mitragliatrici – i lanciabombe et materiale vario. Alt. Firmato Maggiorino”[2]
     
Fra le tante testimonianze del battaglione “Piemonte”, quella del s. ten. medico Augusto Giammiro, è interessante. Dopo aver ricordato che il piano di attacco del battaglione non prevedeva un attacco frontale alla città di Jesi ma ai fianchi per evitare distruzioni inutili, con la possibilità di chiudere in una sacca le unità e reparti Tedeschi che difendevano Jesi, rileva che i Tedeschi stessi, accortesi di questi piano, si ritirano con ordine ma non ebbero il tempo di attuare quelle distruzioni che erano soliti fare al momento di lasciare un abitato o una città, anche se il s. ten. Giammiro ricorda la periferia nord di Jesi disseminata di incendi e coperta di fumo.
Il plotone sanitario, al comando di Giammiro, composto da lui come tenente medico e da quattro alpini “portaferiti”.

“Al momento della partenza dei reparti, il Colonnello Comandante mi comunicò che dovevo rimanere fermo almeno per due ore dopo di che il piccolo plotone sanitario doveva indirizzarsi dritto verso una casa da lì distante circa due chilometri. Quello era il punto di soccorso medico. Successivamente, sulla base di eventuali scontri di fucileria, dovevo raggiungere la sottostante città recuperare l’ospedale civile ed issare sul balcone la bandiera tricolore quale segnale di occupazione avvenuta. Raggiunta la casa, sotto il pericolo dei cecchini, trovammo tutto in ordine, senza segni di abbandono fu così che chiamammo a voce alta dicendo di essere alpini in aiuto, nella speranza di far “uscire” eventuali cittadini nascosti ed allora sentii una voce che chiedeva: chi siete? Alla mia risposta siamo amici alpini Italiani, vedemmo aprirsi una botola dal pavimento è fuoriuscire impressionati grida di gioia e di evviva “siamo salvi, sono alpini”. Usciti dallo scantinato raccomandavo il massimo silenzio, cosa non facile data la presenza di molti bambini. Si trattava di oltre cento persone rifugiatesi nei sotterranei. Erano ancora terrorizzati e nel vedere noi alpini non credevano ancora ai loro occhi perché i Tedeschi erano andati via, affermando prossimo l’arrivo delle truppe marocchine. Ristabilita la calma e rifocillatici con anche del gradito buon verdicchio, il rumore di alcuni spari ci ricordava di raggiungere l’ospedale. Ivi giunti, non incontrammo problemi, , tranne la difficoltà di trovare il tricolore da esporre; gli alpini di guardia alle finestre. Dopo di che, finalmente l’arrivo della pattuglia del ten. Corvino grazie al quale la popolazione scese festosa per le strade dando alimenti e buon vino agli alpini che ne avevano veramente bisogno. Il giorno dopo, per normale avvicendamento la prima linea era presidiata dai paracadutisti della Nembo. Ci furono violenti combattimenti e ricordo, con molta tristezza, il corridoio dell’ospedale pieno di cadaveri di paracadutisti, oltre ai feriti in corsia.”[3]


[1] Pivetta S., Tutto per l’Italia. Diario di un alpino del battaglione “Piemonte”, cit, pag. 77
[2] Archivio Sergio Pivetta, Allegato 61, Copia.
[3] Giammiro Augusto, Il 20 luglio 1944 a Jesi rivissuto dall’Ufficiale Medico del Battaglione Alpini Piemonte in l’Alpino, novembre 1944.

martedì 24 settembre 2019

Jesi. I Suoi rivolti nella storia militare recente






Posta a ridosso immediato di Ancona, piazzaforte marittima del medio Adriatico, Jesi all’inizio del novecento per questa sua posizione vedeva nascere il suo ruolo militare che durò fino al 1947, ovvero all’indomani della fine della seconda guerra mondiale.
Questo ruolo si sviluppò in relazione al concomitante sviluppo del mezzo aereo, che, ai primi del novecento, era ai primi passi; ancora non ci si dibatteva se era più conveniente il “più leggero dell’aria”, ovvero quello che sarà chiamato Dirigibile o Aeronave, o il più pesante dell’aria”, ovvero l’aereo vero e proprio, con carlinga, ali motore e timone; entrambi fornivano al tempo vantaggi e svantaggi, in un equilibrio che fu risolto solo a metà degli anni trenta ( spedizione in Artide del Dirigibile “Italia” e naufragio dello Zeppelin in appontaggio nel 1939 a New York).
Jesi, in questo contesto, fu uno dei principali aeroporti per Dirigibili dell’inizio del novecento.
Il primo aeroporto nelle Marche fu quello di Senigallia, nel quale il pilota jesino Riccardo Ponselli si esercitava con altri piloti, il pergolese Giulio Brilli Cattarini e Muzio Gallo di Osimo. L’hangar di Senigallia era di modeste proporzioni e ospitava tre piccoli velivoli. A causa di un incendio venne distrutto, le fiamme incendiarono anche i tre velivoli. Nell’agosto del 1911, prima dello scoppio della guerra Italo Turca in un rapporto segreto inviato dallo Stato Maggiore della Regia Marina al Ministero della Guerra, si dichiarava che per sorvegliare l’Adriatico e garantire l’esplorazione sicura del mare sarebbe tornato utile l’impiego dei Dirigibili. Allo scopo vennero scelte tre zone strategiche nelle quali realizzare altrettanti aeroscali: a Venezia (Alto Adriatico) a Jesi (Centro Adriatico) e a Taranto o Brindisi (Basso Adriatico). Per la scelta dell’area destinata alla costruzione di un aeroscalo per dirigibili, venne inviato a Jesi il capitano De Cristoforo. La scelta dell’area cadde in parte della zona dell’attuale ZIPA. L’Aeroscalo jesino, costruito nel 1913, era un aeroscalo dell’Aviazione della Regia Marina in quanto al tempo le due forze Armate, Esercito e Marina,  avevano la propria aviazione; consisteva in un enorme capannone di ferro, il vero proprio hangar, ed in varie palazzine e strutture minori, ed era in sistema e  collegamento con il Comando Marittimo del Medio Adriatico di Ancona ed il Comando del VII Corpo d’Armata territoriale. L’aeroscalo nel 1914 e 1915 si sviluppò ospitando Dirigibili.

Impiegati con successo i Dirigibili in Libia, con le esperienze di questa guerra, si costruirono i dirigibili della classe “M” più grandi e più potenti di quelli della serie precedente, I nuovi dirigibili erano destinati a compiere ricognizioni in profondità e bombardamento a grande distanza. Si costruirono anche altri tipi chiamati “V” (Veloci) e “P” (Pesanti) ed i citati “M” (Medi). I Dirigibili Medi avevano queste caratteristiche: 12.000 metri cubi 2 motori velocita 60km, 10 ore di autonomia; 600 Kg. Di portata a 2800 metri di quota. Per quel tempo (1913) erano dati estremamente significativi.
I più famosi dirigibili di questa serie, con cui affrontammo l’inizio della Grande Guerra, furono il “Città di Jesi”, che aveva la sua sede all’aeroscalo di Ferrara, ed il “Città di Ferrara” che aveva la sua sede all’aeroscalo di Jesi. Il Dirigibile  “M”, a cui fu imposto  il nome “Citta di Jesi”, “in onore della città delle Marche che ospitava il secondo aeroscalo per dirigibili della Marina”, iniziò le prove di collaudo a Vigna di Valle, ma dovendosi completare ulteriori prove, fu trasportato per ferrovia a Ferrara, mentre il Dirigibile “M” “Citta di Ferrara”  al comando del tenente di vascello Castruccio Castracani si trasferiva all’aeroscalo di Jesi. Il 29 Maggio 1915, nella sala consiliare del Comune di Jesi si svolse una solenne cerimonia durante la quale venne consegnata alla Regia Marina la bandiera di combattimento dell’aeronave “Città di Jesi” nelle mani del Tenente di Vascello Castrucci Castracani degli Anterlminellli e del tenente di Vascello Carlo Barzagli. La cerimonia è ricordata in una pergamena tutt’oggi conservata presso la Biblioteca Comunale di Jesi, ove si possono leggere chiaramente le firme dei due ufficiali di Marina, del Sindaco, Avvocato Giuseppe Abbruzzetti, del Vescovo, mons. Giuseppe Gandolfi e della Presidentessa del Comitato promotore della iniziativa, Marchesa Erminia Saronni Honorati,
Sotto il profilo operativo, Jesi, con Ancona, vanta il triste primato di essere state le prime città italiane attaccate, nella Grande guerra, dal mare e dall’aria da parte del nemico austro-ungarico. Come noto la flotta austriaca la prima notte di guerra, ovvero all’alba del 24 maggio 1915 si presentò davanti alla coste romagnole e marchigiane e bombardò Porto Corsini, Rimini, Pesaro, Senigallia ed Ancona. Il bombardamento costò alla città dorica oltre 67 morti e diverse centinaia di feriti. Idrovolanti della Marina Austriaca, sorvolando la loro flotta, proseguirono oltre Ancona, che non  fu bombardata dall’aria, e proseguirono per Jesi, lasciando cadere sull’Hangar diverse bombe, ma non ci furono vittime, ma solo un incendio che presto fu domato.
Si può dire che Jesi fu la prima città italiana bombardata dall’aria nel Corso della Grande Guerra.
Gli idrovolanti austriaci erano alla ricerca del “Città di Ferrara” che aveva lasciato Jesi  poche ore prima della Mezzanotte del 23 maggio 1915 per la sua prima missione di guerra: bombardare Pola e le sue installazioni militari. Lo stesso per il “Città di Jesi” che lasciata Ferrara stava operando anche lui verso la costa Istriana. I due Dirigibili erano in pinea attività operativa ma ben presto ci si accorse che questo mezzo non era in grado di svolgere il ruolo di bombardamento che veniva loro richiesto per la loro vulnerabilità. Infatti il loro ciclo operativo non durò più di qualche mese. Il 7 giugno 1915 il “Città di Ferrara” lascia per l’ultima volta l’aeroscalo di Jesi per una missioni di bombardamento sulla città di Fiume, con l’obiettivo di bombardare gli stabilimenti della Whitehead ed i cantieri “Danubisi”, che riesce. Notevoli i danni arrecati, sembra che l’azione di bombardamento strategico sia riuscita. Sulla rotta di ritorno, all’altezza dell’Isola di Veglia, il dirigibile è fatto segno a intenso fuoco di fucileria e mitragliatrici. Colpito in più parti, è costretto ad ammarare. Con l’impatto con l’acqua l’involucro prende fuoco; periscono un ufficiale ed un meccanico; il comandante Castracane e l’equipaggio vengono, salvati e fatti prigionieri da un cacciatorpediniere austriaco.
Stessa sorte toccò al “Città di Jesi” al comando del ten. di vascello Bruno Brivonesi. Nella notte tra il 4 e 5 agosto 1915, con la missione di bombardare i cantieri navali di Pola il “Città di Jesi” nella rotta di avvicinamento, a 2800 metri viene inquadrato dalle fotoelettriche austriache e fatto segno ad intenso fuoco di fucileria e di contraerea. Viene colpito nella zona poppiera e vi è una fuga di gas, che costringe il dirigibile ad ammarare. L’equipaggio viene salvato da una motobarca austriaca e fatto prigioniero. Prima di cadere prigioniero il comandante Brivonesi riesce ad affondare la bandiera di combattimento donata dalla cittadinanza di Jesi.
Con la perdita del “Citta di Jesi” e del “Citta di Ferrara” termina la fase di bombardamento strategico in profondità ad opera dei dirigibili La Regia Marina ordina altri due Dirigibili, che verranno destinati alla esplorazione ed alla sorveglianza, ed avranno un ruolo fondamentale nel presidio dello sbarramento del Canale d’Otranto nel corso della guerra.
L’aeroporto di Jesi è base anche di squadriglie di aerei che si integrano con gli idrovolanti della Stazione marittima di Ancona e del campo di aviazione di Varano, sotto Osimo, per la difesa della piazzaforte.
Da ricordare sul finire del 1915 il tentativo di d’Annunzio di lanciare manifestini e messaggi tricolori su Zara. Dopo che il 5 agosto il Poeta, con pilota il tenente di vascello Miraglia, aveva sorvolato Trieste lanciando messaggi tricolori ed il 20 settembre, anniversario di Porta Pia, traendo con identica missione lo stesso bel risultato, il 26 Dicembre 1915 era tutto pianificato per fare la stessa missione su Zara. Il piano prevedeva la partenza degli aerei da Venezia, rotta sud fino ad Ancona, con scalo o a Varano o a Jesi, poi un balzo verso Zara con l’appoggio di navi lungo la rotta. Dopo aver sorvolato Zara, rientro per lo stesso tragitto. Purtroppo il 24 dicembre 1915, in un volo finale di prova, in un incidente mortale perse la vita Miraglia e tutta la missione fu annullata. Di questa impresa non realizzata dimane ampia traccia negli scritti di Gabriele d’Annunzio.
Rimaneva il significato strategico dell’aeroporto di Jesi: ogni iniziativa aerea nel medio Adriatico non poteva prescindere da questo aeroporto,
Nel 1917 anche l’Aviazione dell’Esercito porto sue squadriglie a Jesi, per incrementale l’attività offensiva, nel quadro della “battaglia in porto” e della “guerriglia marittima” volute da Thaon di Revel. Jesi era perfettamente inquadrato in quella Trincea Marittima che andava dal Timavo, per Venezia, Ancona, Brindisi e con lo sbarramento del Canale d’Otranto fino in Albania. La flotta austriaca era costretta, come avrebbe scritto D’Annunzio” a vivere ferma nei suoi porti “la gloriuzza di Lissa”. In questa lotta mista di colpi di mano e propaganda, Jesi subì da parte austriaca altri bombardamenti, di cui uno, del 27 settembre 1917 provocò notevoli danni. Secondo alcuni, il bombardamento del 5 settembre 1918, che arrecò anch’esso notevoli danni, fu uno degli ultimi bombardamenti aerei di quel conflitto.
Jesi, come città, al pari di quelle settentrionali come Padova, Venezia, Treviso, Vicenza e Verona, e della altre soggette ad incursione aerea, si doto di particolari difese antiaeree. In particolare la nostra difesa contraerea aveva portato sui tetti mitragliatrici e fucili, dando vita a quella curiosa specialità che prevedeva, su altane poste sui tetti, fucilieri e mitraglieri serrati l’un coltro l’altro; dato che il personale era della Regia Marina furono definiti “marinai di grondaia”, da una espressione coniata a Venezia dalla diceria popolare. Pensare che anche a Jesi vi fossero dei “marinai di grondaia” sottolinea il ruolo importante assunto dall’aeroporto, che si affermò nella Grande guerra e poi anche in seguito.

martedì 17 settembre 2019

Jesi Gli anni tra le due guerre



Nel primo dopoguerra, Jesi ebbe modo di mettersi in evidenza con le spedizioni di Nobile al Polo Nord. Di questa assistenza e sostegno Nobile fu grato a Jesi. Dopo il brillante successo della transvolata del “Norge”, partito da Roma, che aveva dimostrato che l’Artide era un immenso mare ghiacciato, Nobile ritornato in Italia fra gli onori generali, volle mantenere la promessa di rendere grazie alla Madonna di Loreto,  che dal 1920 era stata eletta protettrice della gente dell’Aria. Nel settembre 1926 Nobile tornò nelle Marche con prima tappa a Loreto e visitò il santuario lauretano. Il mattino seguente accompagnato dai suoi familiari si  trasferì a Jesi dove trascorse l’intera mattinata accolto dalle autorità e dalla cittadinanza. A pranzo fu ospite dello jesino Riccardo Ponzelli, pioniere del volo, (nel 1910 era stato il primo a levarsi in volo sul cielo dell’Argentina). In serata fu accolto in Municipio per il conferimento della Cittadinanza onoraria di Jesi, a significare come Jesi era considerata e si considerava una “culla” o una “città” aeronautica. UMbeto Nobile è cittadino onorario di Jesi.
Tramontata definitivamente l’epoca dei Dirigibili, l’Aeroporto di Jesi fu completamente ristrutturato. Fu demolito il grande Hangar per dirigibili per far posto nel 1938 ad un vero e proprio aeroporto con pista di atterraggio e elementi di supporto, tanto che divenne uno dei più importanti dell’Italia centrale. Fu intitolato alla memoria del capitano pilota Carlo Simeoni, Caduto in Africa Orientale; né assunse il comando il capitano pilota Roberto Fiacchino.
Nel 1939, Fiacchino, durante una visita del Duce, che era arrivato da Forlì pilotando il suo aereo, fece presente la assoluta mancanza di posti di lavoro nella vallata dell’Esino, e prospettò al Capo di Governo la precarietà e la fragilità economico-sociale della vallata. Si avviò così il processo di costruzione dello Stabilimento Savoia-Marchetti Aeronautica Marchigiana, che portò un grosso contributo alla occupazione di maestranze. Vincendo la concorrenza di altre località quali Arezzo, Terni e la stessa Ancona (Falconara e Varano) che si erano attivate per la costruzione della fabbrica di aerei, la scelta, grazie anche all’interessamento di personalità jesine presso lo stesso Mussolini ( ben orientato anche per il comportamento improntato al massimo valore militare nella guerra d’Etiopia di alcuni jesini). Infine la scelta cadde su Jesi.
La Savoia-Marchetti Aeronautica Marchigiana ebbe vita corta in quanto svolse la sua attività solo per quattro anni; lo stabilimento fu completamente distrutto dall’esercito tedesco in ritirata nel giugno-luglio 1944. Ma il retaggio rimase. Nel dopoguerra le industrie Merloni che fiorirono nella vallata dell’Esino si avvalsero anche dell’esperienza delle maestranze e delle capacità espresse a Jesi per creare quel distretto industriale che fu uno dei fiori all’occhiello della rinascita marchigiana nel secondo dopoguerra.

martedì 10 settembre 2019

Jesi nella Seconda Guerra Mondiale



La Guerra e la Guerra di Liberazione.
La seconda guerra mondiale fu vissuta a Jesi come in tutte le altre città italiane. Inizialmente vissuta come un diversivo dal quotidiano, nel clima guerresco del regime, via via si trasformò in una cosa ben più seria fino ad arrivare alla tragedia della crisi armistiziale del settembre 1943. La occupazione tedesca e l’instaurarsi delle autorità della Repubblica Sociale andò dal settembre 1943 al 20 luglio1944, giorno in cui Jesi ebbe il suo momento culminate da protagonista nella storia del Corpo Italiano di Liberazione. E quindi dell’Esercito Italiano e delle Forze Armate Italiane.
Firmato l’”armistizio lungo” a Malta il 29 settembre 1943, il dramma per l’’Italia era rappresentato dalla volontà punitiva inglese di affossare l’Italia che si contrapponeva al desiderio Statunitense di dare anche agli Italiani la possibilità di riscatto. Nella stretta convenienza per gli Alleati che Vittorio Emanuele III e il Governo Badoglio, che avevano firmato l’armistizio,  rappresentavano la giustificazione di ogni azione alleata in Italia come “liberatori” e non come “occupatori”, prevalse il punto di vista americano di formare una piccola forza combattente da impiegare contro i tedeschi. I Britannici erano dell’opinione che questo poteva diventare un pegno da pagare all’Italia al tavolo del Trattato di Pace che si doveva evitare. L’unico ruolo che Londra riconosceva all’Italia era quello di fornire le cosiddette  “divisioni ausiliare”, cioè manovalanza logistica di retrovia, che rappresentavano per gli ingerlsi il massimo utile con il minimo costo. L’Italia doveva essere liberata dai tedeschi senza il concorso degli Italiani.
Per volere degli americani, dopo che il gen. Messe ed il gen. Berardi rientrati dalla prigionia, erano stati messi a capo delle forze armate italiane del Regno del Sud,  l’8 dicembre 19143 entrò a Montelungo in combattimento il I Raggruppamento Motorizzato, composto da 5000 uomini di cui solo la metà combattenti; respinto, ritornò all’attacco di quota 343 il 16 dicembre successivo, conquistandola. Era il battesimo del fuoco, che fu dolceamaro. Dopo tensioni in cui si fu sul punto di sciogliere ogni forza combattente italiana, nell’ aprile del 1944, dopo il brillante risultato di Monte Marrone del 31 marzo, il I Raggruppamento motorizzato si trasformò in Corpo Italiano di Liberazione, che fu posto al comando del gen. Utili, e portato ad una consistenza di 25.000 uomini, ovvero a livello divisionale.
Assegnato al 2° Corpo Polacco, come terza divisione, accanto alla 3° Divisione “Fucilieri dei Carpazi” ed alla 5° Divisione “Kresowa” il C.I.L. è destinato ad operare con il Corpo Polacco sulla direttrice adriatica. Nel giugno del 1944 il Corpo Italiano di Liberazione era negli Abruzzi, concentrato nell’area Pescara-Chieti. Mentre i polacchi avanzavano lungo la statale 16, lungo la via di facilitazione marittima, il Corpo Italiano di Liberazione avanzava per la via pedemontana. Liberò  Teramo, poi Ascoli Piceno, entrando nelle Marche, Abbazia di Fiastra e Tolentino, fino a giungere con le sue avanguardie al fiume Potenza. I polacchi, anche loro in progressione verso nord, avevano come obiettivo la liberazione di Ancona e la conquista del suo porto, per alleviare il peso logistico. Ogni cosa doveva essere sbarcata a Brindisi Bari e Taranto e poi porta via terra alle linee che si allungavano sempre di più.
Il 1 luglio le due divisioni polacche, passato i Potenza attaccarono le alture di Loreto e Castelfidardo, con obiettivo Ancona. Era la I Battaglia per Ancona che si risolse in una sconfitta imprevista. Su 200 carri armati in due giorni ne furono persi oltre 50, senza riuscire a fare progressi di sorta. Il gen. Anders, comandante del Corpo Polacco, riconsiderò il piano generale e dovette prendere in considerazione gli Italiani, ovvero il Corpo Italiano di Liberazione, che in quel torno di tempo era disseminato nelle sue unità dal fiume Potenza all’area di Chieti-Pescara. Il 4 luglio 1944 Anders ordina al Corpo Italiano di Liberazione, che si muoveva “per via ordinaria” cioè a piedi, di concentrarsi per partecipare all’attacco di Ancona; come per miracolò appaiono i camions ed ogni mezzo motorizzato che permette al Corpo Italiano di Liberazione di concentrarsi sul Potenza già la sera del 5 luglio al completo. Gli viene assegnato un obiettivo preliminare: la conquista del crocevia di Filottrano, premessa indispensabile per attaccare la piazzaforte dorica. Il 7 luglio gli Italiani arrivano alle posizione di partenza per attaccare Filottrano. L’attacco viene lanciato l’8 luglio, con criteri totalmente diversi rispetto alle tattiche  precedenti in uso presso il Regio esercito. Per la prima volta cinque battaglioni di fanteria sono sostenuti da 10 gruppi di artiglieria, con un rapporto fanteria-artiglieria di 1 a 2. Mai nei precedenti quattro anni di guerra vi era stato per le forze italiane un simile rapporto. E’ la battaglia di Filottrano dell’8 e 9 luglio 1944, che si risolve in una completa vittoria italiana in cui viene praticamente distrutto un battaglione di veterani della 71° divisione di fanteria tedesca la comando del gen. Hoppe.  Le forze alleate serrano su Ancona e viene approntato il piano di attacco che vede una un uguale considerazione tra le forze polacche britanniche ed italiane. Il piano prevede l’impiego di tre gruppi di forze a livello divisionale: la 5a Divisione doveva attaccare a destra, con compiti di fissaggio ed inganno, (asse della statale adriatica 16, essendo la via più breve e facile per giungere ad Ancona; la 3a Divisione doveva attaccare, partendo da Casenove di Osimo, per Croce di San Vicenzo, Polverigi, Agugliano, Cassero e cadere alle spalle dello schieramento tedesco a difesa di Ancona, a Castelferretti e Falconara e chiedere il cerchio. Per dare sicurezza e protezione alla 3a Divisione, il Corpo Italiano di Liberazione doveva avanzare su Mazzangrugno, e puntare risolutamente su Jesi e conquistarla, costringendo le forze tedesche a retrocedere da tutta l’area dell’anconetano. Classica manovra di Corpo d’Armata, dopo che i polacchi erano stati sconfitti nella I Battaglia di Ancona per aver attaccato con sole due divisioni.
Tutto questo dilungarci sulle vicende del I Raggruppamento Motorizzato (Montelungo) del Corpo Italiano di Liberazione (Filottrano) per dire che la conquista di Jesi il 20 luglio 1944 da parte del Battaglione Alpini Piemonte e da parte delle altre unità italiane segna il definitivo riconoscimento da parte alleata , (soprattutto polacca) dell’opera e della azione italiana nella Guerra di Liberazione.
La vittoria di Jesi, peraltro troppo misconosciuta, rappresenta, quindi, una tappa miliare nella storia militare recente delle Forze Armate italiane.
I dettagli dell’azione svolta dalle unità italiane il 18 e 19 luglio portano a considerare che entrò in linea anche il battaglione della Marina “Bafile” che diede il suo contributo, In allegato alcune pagine di quei giorni che legarono Jesi e la sua popolazione ai soldati italiani. Il significato strategico della vittoria di Jesi fu che il Comando Alleato, dopo le operazioni del luglio-agosto 1944 che portò il Copro di Liberazione Italiano sulla linea del Metauro, a decidere di ritirarlo dalla linea, per porlo come base per la formazione dei Gruppi di Combattimento, e portare il contributo italiano di combattenti  ad oltre 250.000, ovvero ad assegnare anche all’Italia parte del fronte italiano nell’ultimo anno di guerra; la considerazione era tale che gli Alleati fornirono equipaggiamento ed armi riequipaggiando al completo le unità italiane. Filottrano e Jesi furono le ultime battaglie combattute dai soldati italiani con la divisa grigioverde.

Subito dopo la conquista di Jesi, il Comando alleato, preso possesso del porto di Ancona, che già fu attivato e reso agibile dal 26 luglio, ove giunsero tutti i rifornimenti via mare, e ove fu costruito un oleodotto che dal porto di Ancona, su Falconara riattivati gli impianti della raffineria, riforniva le truppe avanzanti verso nord. Gli aeroporti di Falconara e di Jesi furono ripristinati. Quello di Jesi si vide allungare la pista e divenire uno dei più importanti aeroporti alleati a gestione inglese. Con la fine della guerra, il trattato di pace, l’aeroporto funzionò fino al 1947. Da quella data l’aeroporto fu via via dismesso fino a che tutta l’area aeroportuale fu messa a disposizione della ZIPA.

martedì 3 settembre 2019

Il Valore Militare e gli Jesini



Se la città di Jesi ebbe un ruolo nelle vicende militari nella prima metà del novecento, gli Jesini in quanto assolsero il loro dovere di cittadini in Armi.
Nella Prima Guerra Mondiale, le brigate di riferimento sono la Brigata “Marche” e la Brigata “Ancona”, tutte nate in epoca postrisorgimentale ed umbertina con i reggimento, per la prima, 55° e 56° , e per la seconda, 69° e 70°. Il Distretto Militare di Ancona reclutava nella vallata dell’Esino, anche se le brigate, secondo la legge del 1873, avevano il nome geografico ed il distretto di alimentazione che corrispondeva al nome geografico, ma con accanto altri sei o sete distretti delle diverse regioni italiane, al fine di far comporre la brigata da tutti gli italiani, nella scelta post risorgimentale che “fatta l’Italia occorre fare gli italiani”
Nella Prima Guerra Mondiale  gli Jesini decorati di Medaglia d’Argento furono 28, di medaglia di bronzo 35 e 26 furono i decorati di croce di Guerra al Valore Militare. Nelle Marche si ebbero sette Medaglie d’Oro, tutte concesse a marchigiani di altre provincie. Da segnalare che uno Jesino Onesto Honorati ebbe, durante la guerra di Libia, la promozione per merito di guerra a tenente colonnello, ove si meritò anche una Croce di Guerra al Valore Militare. Durante la Grande Guerra, sul fronte italiano ebbe una Medaglia d’Argento al valor Militare e trasferito in Francia combattè nell’ambito del II Corpo d’Armata al comando del gen. Albricci e in unità miste franco-italiane, ove si guadagnò prima una Croce di Guerra francese e poi una successiva Croce di Guerra francese con Palma.
Tra le due guerre, particolarmente significativa la Medaglia d’Argento sul Campo avuta da Roberto Honorati, tenente medico. In una azione per la conquista di una quota, caduti tutti gli ufficiali, assumeva il comando e portava a compimento l’azione, ricevendo l’ammirazione di tutti.
Nella Guerra di Etiopia si distingue Marco Montali in cui si conquista due Croci di Guerra al valore Militare, una Medaglia di bronzo ed una d’Argento, e  nel 1941, alla vigilia della caduta dell’Impero, una Medaglia d’Argento al Valore Militare. Pietro Rosolini, che si era guadagnato due Medaglie di bronzo ed una Croce di guerra al Valor Militare durante la Grande Guerra, ebbe una terza Medaglia di Bronzo nel 1936,  ed infine una Croce di Guerra al valor Militare in Cirenaica nel dicembre 1941.
Nel ciclo di guerre che va dal 1935 al 1945, compresa quindi anche la Seconda Guerra Mondiale,  gli Jesini si conquistarono 34 Medaglie d’Argento, 36 di Bronzo e 50 Croci di guerra al Valor Militare, significando questo che i figli di coloro che combatterono la Grande Guerra furono degni dei loro Padri.
Per far fede alla sua tradizione aviatoria, Jesi vanta l’aviere Duilio Bianchelli, del personale navigante, mitragliere  che ha una Medaglia di Bronzo per azioni sul cielo del mediterraneo orientale, nel giugno luglio 1940, e una Croce di Guerra al valore Militare il 16 febbraio 1941 sul Cielo di Creta.
Eugenio Archetti che ha una medaglia d’Argento per difesa di Tobruck nel maggio 1941, e una, alla memoria, per la sua strenua resistenza su una posizione della frontiera egiziana nel dicembre 1941.
Esempi possono essere fatti per tutti i fronti di guerra ove il valore degli Jesini si rilevò ed è degno di nota.
Una nota particolare che emerge dalla Fonte da cui si sono tratte queste notizie ,(“Cittadini di Jesi Decorati al Valor Militare – Lions Club Internazionale, Club di Jesi, 1961, che è quindi una fonte non istituzionale); vi è inserito anche Marcello Honorati, decorato di Croce di Guerra al Valore Militare. La particolarità sta nel fatto che Marcello Honorati era un ufficiale volontario della X MAS - Battaglione Barbarigo, meritata come comandante di compagnia sul fronte di Nettuno, il 14 marzo 1944, ovvero sulla testa di ponte di Anzio durante le operazioni tedesche volte a ributtare a mare le forze alleate sbarcate. Per il fronte meridionale del Reich, come i tedeschi chiamavano in fronte italiano, per disposizione del Comando supremo tedesco in Italia non dovevano venire a contatto con truppe alleate, i reparti della R.S.I. Gli Italiani avevano compiti solo di controllo del territorio e repressione antiribellistica, come allora si chiamavano i partigiani.
 La X Flottiglia MAS, reparto italiano, riuscì a raggiungere il fronte di Nettuno perché non era una formazione della RSI, ma esisteva in base ad un accordo tra il principe Borghese, suo comandante, e il Comando Marittimo di La Spezia tedesco, stipulato nel settembre 1943. Manteneva la Bandiera Italiana il Regolamento di disciplina italiano e la divisa della Regia marina, era leale al vecchio alleato ma non voleva avere alcun rapporto con la RSI. Per questo era schierata sul fronte di Anzio. Era il segno dei tempi, non certo facili, seguiti alla crisi armistiziale dell’8 settembre. Tempi che si composero con la fine della guerra, la scelta Istituzionale del 2 giugno 1946, l’avvio dell’Italia di oggi.

Jesi, con la chiusura dell’aeroporto nel 1947 perse la sua caratteristica di città  “aeronautica” assunta agli inizi del novecento. Perse anche la connotazione di città militare, non avendo in città di stanza alcun reparto delle tre forze armate.

Jesi ha dimostrato di avere un alta passione per le virtù civiche, ed il suo monumento ai Caduti ricorda questo suo passato militare che il 75 anni di pace, non è stato scalfito ne attenuato, anche se si manifesta in forme e espressioni diverse, al segno ed al passo dei tempi.