13.3.“Grazie,
Alpino, per quel pane”.
La gratitudine della popolazione
per la liberazione dai Tedeschi e per la fine dei pericoli si manifesta in modo
spontaneo, ed aumenta quanto ci si accorge che a portare la libertà sono degli
Italiani, e non degli stranieri come ci si aspettava, e per giunta appartenenti
ad un Corpo estremamente popolare come quello degli Alpini. Francesco Gualdoni
così scrive, attingendo dai suoi ricordi:
“Grazie Alpino per quel pane!. Eri sui vent’anni ed io ne avevo appena
quindici. Ci incontrammo alle sei di mattina di quel 20 luglio 1944, in prossimità dello
“sporticello” di via Mura Occidentali, in una Jesi completamente deserta. Il
sibilo di qualche granata isolata e di uno Spitfire, su in alto, con attorno i
segni della contraerea che tirava dalle colline a
nord della città. Mi accorsi di averti fatto sbigottire perché tu,
Alpino, vedesti all’improvviso un viso macilento, due occhi guardinghi sotto i
capelli incolti, una canottiera più piccola dei buchi che si ritrovava, quel
ch’era rimasto dei pantaloni corti, uno spago per degnissima cinta, e le
Timberland di allora, la pelle dei piedi. Risalivo le scalette a quattro zampe,
sfinito dalla fame e dalle lunghe veglie. Ero uscito dalle cantine del civico 4
di via dell’Orfanatrofio, dove le donne, rosario in mano, attingevano piangendo
la fine di tutto. Ma anche il tuo “look” non era migliore del mio, il cappello
con mezza penna (forse una “raffica”?) calato sugli occhi, la divisa “Kaki” che
avrebbe richiesto abbondanti lavaggi e rattoppi. Procedevi con circospezione,
rasente al muro, il MAB[1]
spianato e pronto a far fuoco. Mi chiedesti se la Wehrmacht se n’era andata ed
io, annuendo, avevo ancora negli orecchi il gran botto del cavalcavia del viale
della Vittoria, ridotto in briciole in quella notte più lunga del solito, poco
dopo che i guastatori in ritirata erano passati a dar voce sulla porta del
rifugio: "Alles kaputt, achtung, saltare ponte!”.
Mi passasti un pezzo di pane, di un bianco che non avevo mai visto e mi
desti il bene assoluto della libertà, di cui spesso sperimentiamo la formula
con pessimo uso. Non feci nemmeno in tempo a dirti grazie. Mi sdebito oggi, con
45 anni di ritardo. Scusami, Alpino del battaglione “Piemonte” ma sberle e
sberleffi della vita mi hanno insegnato che l’eternità del tempo si può anche misurare
a secondi” [2]
13.4.“I
carri funebri erano stati rubati dai fascisti per fuggire”.
Il passaggio del fronte fu una
tragedia sociale. Impossibile descrive la situazione di ognuno, situazioni che
dovrebbero essere riportate al presente per capire la immensità della tragedia
stessa. Una sintesi di quei drammi, leniti in parte dalla esternazione di
valori vissuti e praticati in questa testimonianza, che è anche ricordo
struggente, memoria ed affetto per la liberazione da questi incubi da parte di
una adolescente, a Jesi:
“Era da poco giorno, quel 20 luglio 1944 ed io ero in piazza del Duomo
con nelle mani le borse contenenti fiaschi per andare a prendere l’acqua alla
fonte di San Marco, perché, con tutto il resto, i Tedeschi avevano già da
giorni fatto saltare l’acquedotto. Avevo 16 anni e con me erano altre due
coetanee quando, dal lato opposto a quello in cui mi trovavo, ho visto spuntare
soldati con mitra spianati; impaurita come ero e con me le mie compagne, fuggii
verso i vicoli, gridando a chi poteva sentire di nascondersi, perché c’erano
ancora i Tedeschi. Poi, seminascosta, tornai verso la piazza per vedere che
altro di male potevano ancora volerci fare i Tedeschi, naturalmente pronta a
darmela a gambe levate per nascondermi. I soldati avanzavano ed ora potevo
distinguere meglio. E vidi meglio. Eravate Voi, i liberatori e quanto eravate
belli, così come vi ho visto! Senza rendermene conto, lasciai le borse che
ancora avevo in mano e vi corsi incontro. Non so se foste voi ad abbracciarmi o
se fossi io, forse insieme, non ricordo. So solo che piangevo e ridevo insieme
perché finalmente eravate arrivati eppoi perché eravate Italiani come noi. Mi
sentii buttare in aria; ma appena a terra corsi di nuovo verso i vicoli
gridando la notizia che da tanti giorni aspettavamo. Lì, per lì, la piazza si
gremì di gente; ma io corsi a casa ( abitavo proprio lì vicino) per dire alla
mia mamma ed a mio fratello, che stava morendo per i maltrattamenti subiti in
un rastrellamento tedesco, che finalmente eravamo stati da Voi liberati. Non
dico con quanta commozione comune, credo possa immaginarlo. Mario, mio
fratello, sembrava guarito dalla felicità, mentre la mamma lo rassicurava e lo
accarezzava insieme. C’ero eccome, quel giorno e quanto Lei ha scritto[3]
è proprio tanto vero che mi pare di essere tornata indietro nel tempo. Sette
giorni dopo, poi, di mattina vennero a casa nostra quattro soldati: un Alpino,
un Bersagliere, un Paracadutista ed un Fante, guidati da un tenente medico
degli Alpini. Erano stati informati che qui c’era un ragazzo di 19 anni che
stava morendo e per quale causa. Sapevano anche che, nei pochi momenti di
lucidità che aveva, era tormentato dal pensiero che, nonostante si fosse
rifiutato di trasportare le cassette di mine con le quali i Tedeschi
volevano e fecero saltare la galleria di Serra San Quirico (Ancona) vi era
stato costretto a forza di bastonate e colpi con il calcio del mitra ed infine,
per ulteriore rifiuto, gettato nel fiume sottostante la montagna e creduto
morto, si potesse credere che lui fosse un vigliacco.
Egli, in effetti, aveva da tempo fatta la scelta che la coscienza di Italiano
gli aveva suggerito e le precedenti persecuzioni dei repubblichini lo possono
dimostrare; ma il suo chiodo fisso era e restava quello di essere stato
umiliato e costretto a fare ciò che non avrebbe mai voluto fare e quello di non
essere piuttosto ammazzato subito, nonostante la voglia di vivere che aveva. A
quei cinque Angeli venuti per tranquillizzarlo, lo disse con il poco fiato che
ancora aveva, piangendo e con lui tutti noi. Poi, loro dissero ciò che lui
aspettava per acquetarsi: che se tutti gli Italiani avessero agito come lui,
forse molti di quei ragazzi che dopo l’8 settembre 1943 si erano arruolati per
venire a liberare noi, non sarebbero morti. E fecero una cosa meravigliosa:
spiegarono una bandiera tricolore che avevano con loro, gliela distesero sul
suo corpo nel letto e si intrattennero ancora un po’.
Non avevamo niente da offrire loro, solo un po’ di vino di quel fiasco
regalatoci da un Alpino alcuni giorni prima ……si era procurato. Lo offrimmo con
tutto il cuore e con tutta la riconoscenza. Il giorno dopo, il 28 luglio 1944,
mio fratello morì così come aveva detto ai nostri parenti che si era premurato
di cercare, quel generoso tenente medico che lo aveva visitato.
Poi l’altro, unico ma incommensurabile riconoscimento che mio fratello ebbe:
al suo funerale ‘eravate anche voi e su quella bara, che sembrava più una cassa
per il trasporto di frutta che tale, metteste nuovamente il Tricolore. Inoltre,
nonostante che il percorso da casa al Cimitero fosse ancora minato, credo che
partecipò con voi, tutta Jesi, tanto era lunga la processione di gente dietro a
quel carrettino a mano che lo trasportava là (i carri funebri erano stati
rubati da fascisti per fuggire).
Scrivo e piango.
Piango perché esprimo questo ricordo che è sempre fisso nella mia mente e
soprattutto perché finalmente posso ora dire grazie a Lei e per Suo tramite a
tutti quei meravigliosi ragazzi che passarono per Jesi.” [4]
Il legame tra la popolazione
ed il Corpo di Italiano di Liberazione in quei giorni difficili non poteva
essere meglio espresso dal ricordo di quella che allora era una adolescente e
che visse la sua vita in questo spirito.
[1] Fucile
automatico berretta, MAB, il fucile in dotazione alle truppe d’assalto ed alla
fanteria del Corpo Italiano di Liberazione, lì dove era disponibili.
[2] Gualdoni
Francesco, Grazie Alpino per quel pane!, in
La Gazzetta di Ancona, 20 luglio 1989
[3] L’articolo
è una risposta in data 30 giugno 1984 ad un articolo di Sergio Pivetta pubblicato
nel gennaio-febbraio 1984 su “L’Alpino”, mensile della Associazione Nazionale
Alpini, in merito alla Liberazione di Jesi.
[4] Tralucci
Fernanda, Era il 20 luglio 1944. In piazza Duomo
siete arrivati Voi, i nostri salvatori. in L’Alpino, giugno 1984.
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